Livia Iaccarino. Il palato del Don Alfonso

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Livia Iaccarino Punta Campanella e i Faraglioni di Capri
Livia Iaccarino, Punta Campanella e i Faraglioni di Capri

“Il cibo è uno spartito musicale e in sala c’è la chiave di lettura”.

Napoli, Università Suor Orsola Benincasa. Licia Granello, giornalista de La Repubblica, presenta Livia Iaccarino, sommelier e cuore del celebre ristorante Don Alfonso 1890 a Sant’Agata sui due Golfi.

Andiamo a conoscere alcuni frammenti di questa famiglia, una storia tra passione per la cucina e amore del Sud.

I colori del cibo

Alfonso e Livia si sono innamorati ragazzini. Abbiamo Livia, dodicenne stilosa ed elegante, cresciuta tra tessuti e vestiti bellissimi.

Ed ecco Alfonso, di un paio d’anni più grande, un talento per la pittura e per i colori, ma con una mamma molto severa: non lo lasciava dipingere, perché diceva che si sporcava e la cosa non andava bene. Alfonso aveva così trasferito questa passione nel cibo, nei colori del cibo.

I due aspettavano che la mamma di Alfonso si addormentasse, rubavano la chiave e andavano di nascosto a fare esperimenti in cucina. Poi, ovviamente, dovevano rimettere tutto a posto.

Per la verità, ricorda Livia, “Alfonso si esibiva e io dovevo ricordare i posti degli attrezzi e pulire perché altrimenti saremmo stati ripresi in malo modo il giorno dopo”.

Livia Iaccarino e Licia Granello
Livia Iaccarino e Licia Granello

La damigiana di vino

Inseparabili e scaltri, non sempre riuscivano a farla franca. Una famosa sera provarono a fare il vino, pestarono l’uva, la misero in una damigiana che “diligentemente” tapparono per non farci entrare la polvere…

Da lì a pochi giorni successe quel che non doveva succedere. La damigiana scoppiò, e frammenti di vetro con mosto zuccherino si sparsero su abiti, pareti, cibo, dappertutto.

Fu il finimondo e terribile fu la punizione: questi ragazzini andavano separati, la loro complicità interrotta.

Alfonso fu mandato in collegio a Napoli. Livia finì rinchiusa dalle suore: sei mesi di controllo asfissiante di gonne, biglietti, tutto.

Risultato? La coppia, tra ribellione e scorribande, arriva al matrimonio.

Un matrimonio contrastato

I due si fidanzano – è Licia Granello ora a ricostruire – e si sposano, con la firma dei genitori, perché Livia era minorenne, una firma che tardava ad arrivare per le perplessità dei genitori: ad ottobre sono 50 anni di matrimonio…”.

Il regalo di nozze? Fare gli albergatori. Alfonso ha il nome del nonno, una famiglia di albergatori storici, e quindi era scontato che dovessero portare avanti l’attività di famiglia.

Una scelta da pazzi

In realtà, tra lo scettiscismo dei genitori che contavano unicamente sull’attività di albergatori, il 21 luglio del 1973 i giovani sposi decidono di aprire un ristorante e di chiamarlo Don Alfonso in onore del nonno.

Una vera e propria sfida, divisi com’erano tra il tempo pieno in albergo e la ristorazione sorta nella dépendance.

Arriviamo così al 1982, con la decisione di puntare unicamente sulla ristorazione:

“Noi – racconta Livia nel dialogo con il padre – vogliamo fare ristorazione, noi vogliamo dare dignità ai prodotti del sud, noi vogliamo recuperare la nostra storia. Mio padre sconvolto: È molto bello quello che volete fare, ma… chi ve lo fa fare? Voi siete due pazzi, voi lasciate l’albergo, il certo per l’incerto. La ristorazione è un gioco d’azzardo, a Sant’Agata sui due Golfi poi…”.

Poco aiuto, poca disponibilità da parte della famiglia ad assecondare economicamente una pazzia, insomma tante difficoltà e lo scandalo di un albergo e di una villa venduti pur di assecondare un sogno.

Riscoprirsi contadini

L’idea è comprare un terreno abbandonato di fronte all’isola di Capri per ricavarci la materia prima per il ristorante. E così nel 1985 inizia la grande avventura: dedicarsi alla terra bandendo l’uso dei fitofarmaci.

Lavoro di riconversione del terreno rivelatosi duro e lungo. Un terreno senza vita, senza humus, che ha richiesto più di 4 anni per rigenerarsi, e dove i pomodori crescevano neri internamente e le melanzane risultavano molle.

E così fu una festa quando arrivarono finalmente i pomodori “veri”, dei “pomodoro d’oro” per il lavoro profuso. Un lavoro di passione, senza orari, senza feste e anniversari da poter festeggiare.

Gli anni ’80

Un percorso con tanti momenti duri, come nel 1983, all’inizio della loro avventura. L’idea di valorizzare la semplicità della materia prima non fu compresa e persero tanta parte della clientela, in particolare napoletana.

La ristorazione nell’Italia degli anni ’80 era fatta – ricorda la Granello – “per stereotipi e mode abbastanza sciocche, ma che in qualche modo davano un’identità più chic, più sfiziosa, per cui la rucola, per cui i gamberetti, per cui la panna, la vodka. Era un tipo di approccio alla ristorazione fatto per stupire, per ostentare, ma senza dietro un ragionamento. Non c’era la cultura del cibo, c’era solo l’ostentazione del cibo. Qualsiasi tipo di infingimento, di trucco, era autorizzato”.

Il piatto semplice, la ricetta che lavora sulla materia prima era considerata assolutamente inutile e banale: “Ora che in tutto questo una giovane famiglia si ficchi in testa di recuperare il pomodoro San Marzano, di farsi l’orto presso Punta Campanella, è un lusso enorme e negli anni ’80 inconcepibile. Molto meglio le pennette con panna e vodka che sono un’aberrazione pazzesca, ma faceva figo”.

In questa situazione, loro fanno gli spaghetti al pomodoro, “piatto speciale”. “Quando abbiamo riaperto – ricorda Livia – la specialità era spaghetti alla Don Alfonso. Come sono fatti? Pomodoro fresco e basilico. I napoletani ci ridevano tutti in faccia…”.

Il risultato fu un ristorante vuoto. La rinascita? Grazie ai congressi, con persone che arrivavano da tutto il mondo, da lì è nata la rinascita. Perché quello che era considerato banale dai napoletani, era riconosciuto come straordinario dagli stranieri o da chi arrivava da altre parti d’Italia. Non avevano mai mangiato una cosa così buona. Lentamente Punta Campanella diventava sempre più trionfante, fino alla prima Stella Michelin nel 1985. Un momento inatteso, il riconoscimento da tutto il resto del mondo, nel momento in cui si verificava l’abbandono della clientela locale.

Le uova di Ernesto

Questa attenzione per la materia prima trae origine dalla cura della salute dei figli. E qui si incrociano la conoscenza di un medico e le uova della contadina Margherita.

Questo medico, contattato una prima volta per curare un’infezione contratta dalla sorella di Alfonso, diventa loro medico di fiducia e si prende cura di Ernesto, bambino fragile e afflitto da una brutta tosse. Da questo grande maestro, Livia e Alfonso apprendono l’importanza di fare attenzione alla giusta alimentazione. “Con questo regime con cui abbiamo cresciuto i figli abbiamo cresciuto il Don Alfonso”.

L’esigenza di dare ad Ernesto gli alimenti più sani e nutrienti possibili si scontra un giorno con lo scoprire che le uova della contadina Margherita, uova credute d’oro perché venivano dalla campagna, in realtà provenivano da galline cresciute con la chimica alimentare e metodi stressanti.

Da qui il comprendere l’origine di tante malattie in una alimentazione errata e colma di inquinanti.

Insomma, c’è contadino e contadino e non sempre l’immagine e la rappresentazione di salubrità e genuinità, di campagna sana, è confermata dalla realtà. Da allora, tutte le loro galline sono nate lì, a Punta Campanella, e sono curate ed accudite. “Abbiamo anche una Spa delle galline per una covata in piena serenità, l’asilo per i pulcini…”.

Dall’episodio delle uova per Ernesto nasce lo stimolo per ricominciare da zero per poi arrivare a Le Peracciole, sette ettari distribuiti nella zona più selvaggia della Penisola Sorrentina.

Il re dei pomodori

© canva

Il pomodoro San Marzano era pressoché estinto perché era considerato troppo poco produttivo. Si preferivano varietà più facili da coltivare, più semplicemente esenti da patologie, che non richiedevano particolari cure, ma con un gusto diverso.

Alfonso e Livia Iaccarino decidono che bisognava recuperare il San Marzano.

Vanno a San Marzano, si rivolgono al sindaco, e si sentono rispondere che il pomodoro San Marzano non esiste più, perché adesso ci sono i ciliegini, che sono molto più comodi. Alla fine, è solo tramite un amico che riescono ad ottenere i semi del pomodoro San Marzano.

“Godere – sostiene Livia – significa lasciarsi andare e il cibo come un pomodoro raccolto venti minuti prima e portato a tavola ti dà delle emozioni sconvolgenti”.

Tra sala e psicologia

Con Livia la sala riceve un garbo e un senso come difficilmente si vedeva. “Quello della sala – è Livia che parla – è un lavoro meraviglioso. Per me il ristorante è la casa, la vita. E io sono orgogliosa di accogliere gli ospiti nella mia casa, per cui sono lì al lavoro dal 1983 ogni giorno, senza mai mollare, non ho intenzione di mollare”.

Sala - Don Alfonso
Sala – Don Alfonso

La sala, nell’accezione di Lidia, ha anche l’aspetto di un delicato lavoro psicologico nei confronti del cliente.

“La cucina prepara il piatto, e manda il suo messaggio di amore, ma è in sala che si racconta il cibo all’ospite, e non bisogna aspettare che chieda. Bisogna essere psicologi, un lavoro molto difficile, impegnativo. Un lavoro di sensibilità.

Guardare negli occhi l’ospite e prima ancora che parla devi intuire se ha bisogno di qualcosa e lo devi avvolgere con la solarità, l’empatia. Non per forma, ma facendo sentire che tu stai facondo qualcosa per loro, per accoglierli”.

Un lavoro stupendo perché in sala la sera hai il mondo seduto alla tua tavola, ti interfacci con altre culture, ti arricchisci. “Ed è meraviglio quando escono dalla tua porta e ti dicono «quanto ho imparato stasera».

Quindi la sala come accoglienza calorosa, vera e dove tutti si muovono come in una danza. “Perché anche muoversi tra i tavoli è importante. Ad esempio, non bisogna correre, non bisogna essere troppo vicini al cliente. Anche la gestione, la regia della sala deve avere un senso, non deve disturbare. Ci devi essere, ma non ci devi essere. Devi essere molto leggero, molto pronto, ma non invadente, aggressivo”.

Il nutrimento dei ristoratori

Per Livia e Alfonso l’attaccamento alla propria terra è fortissimo ed è motivo di ricompensa per i tanti sacrifici e rinunce. “Noi siamo il sud e siamo orgogliosi di farne parte. Sant’Agata, Napoli sono la mia terra e la difendiamo in tutto il mondo. Del resto, chi viene da noi vuole vivere una storia vera, autentica, di un territorio. E noi abbiamo questa ricchezza che dobbiamo solo difendere e offrire con orgoglio”.

Orgoglio di appartenenza in grado di coniugare cibo e storia, perché il cibo è storia, è contaminazione, è cultura, è vita del mondo. Non si può prescindere un piatto dalla storia di un popolo.

“Chi viene da noi – racconta Livia – deve toccare un pezzo della storia della nostra Italia, altrimenti siamo senza anima, siamo niente. Noi difendiamo il pomodoro San Marzano, il nostro olio, la nostra pasta, i nostri carciofi, le melanzane, i nostri prodotti, che il mondo ci invidia”.

E ci invidia non perché siamo bravi, ma piuttosto fortunati, perché abbiamo il Vesuvio e quindi una terra incredibile, tra sottosuolo vulcanico e salsedine di mare. “È così che i nostri broccoli, i nostri finocchi, i nostri pomodori sono un’altra cosa (…). Le verdure vengono servite senza sale, sono già salate naturalmente. Lo stesso olio non ha bisogno di essere accompagnato dal sale, la salsedine è già sulle olive”.

Comunicando Don Alfonso

Se questo è il patrimonio da tutelare e valorizzare, la comunicazione vien da sé con l’amorevole cura del territorio e il cibo come messaggio d’amore in sala e in cucina

“Il Don Alfonso, afferma Livia, si comunica con l’amore, è quello che fai che comunica, occorre fare bene quel che si sta facendo. Non abbiamo mai pensato di andare nel mondo, è il mondo che è venuto da noi. Perché quando si lavora con passione si lascia un segno indelebile”.

Il gesto del cliente che, tornando a casa, sente la necessità di scrivere una mail, una lettera di ringraziamento è la più preziosa ricompensa per il lavoro svolto.

“È commuovente, meraviglioso, chi scrive “speriamo di tornare presto”, vuol dire che quello che hai fatto è fatto con passione, che ci hai dato un’anima. Il messaggio è passato. Il cliente arriva, per curiosità, ma è molto più bello quando ritorna, vuol dire che hai lasciato un segno. E questa è una delle più grandi soddisfazioni di questo lavoro”.

Il potere di veto

Se per Livia il cibo è uno spartito musicale che trova in sala la chiave di lettura, ciò significa che la sala ha anche un potere di veto. “Se il piatto non piace a me, non arriva in sala. I piatti li devo amare, li devo sentire miei, altrimenti non posso raccontarli. Quando Ernesto prepara un menù ascolta il parere di tutti, e il primo giudice sono io. È una ricerca continua per l’emozione che vuoi tirare fuori dal prodotto unico che ti arriva dall’azienda agricola”.

Da Alfonso ad Ernesto

Oggi, chi si esprime in cucina è il figlio Ernesto. A pensarci non deve essere stato facile prendere il testimone. Alfonso Iaccarino, 3 stelle Michelin, primo ristorante del sud, ha dato tanta dignità, forza e visibilità alla cucina del Sud. Ed effettivamente per Ernesto avere un padre così ingombrante è stato veramente complicato.

Una fatica enorme, ma con Ernesto capace di tenere botta, gestendo la successione in cucina e superando diversi momenti critici. Secondo la Granello ciò si spiega con la sua storia e il suo personale percorso. Dopo una laurea in Economia è sua la scelta di tornare a Sant’Agata, avvicendandosi con il fratello Mario, altro cuoco bravissimo.

Una famiglia, quindi con quattro forti e strutturate personalità. “Ognuno dice io sono e racconta il suo pezzo di storia, con un ruolo centrale ricoperto da Livia”.

Il palato del Don Alfonso

Si ritorna quindi a Livia, motore del ristorante ad impronta femminile fortissima. Si può dire che il ristorante non esiste senza Livia. E nessuno dei tre uomini della famiglia Iaccarino può prescindere da questo.

Vesuvio_di_rigatoni
Vesuvio di rigatoni

“Il palato del Don Alfonso, con tre cuochi bravissimi, del cliente medio del Don Alfonso, è tarato sulla sua bocca. Questo significa che è passato un meta messaggio. Loro cucinano e offrono ed elaborano, ma alla fine il filtro è il suo. È ancora il suo ristorante, malgrado non abbia mai cotto un uovo per il ristorante”.

La figura di Livia sta lì a dimostrare come la cultura, il gusto, la sensibilità, l’attenzione, possa determinare la storia di un ristorante.

“Ci sono dei messaggi – conclude Licia Granello con un filo di commozione – che passano per delle vie che noi non riusciamo a vedere, che non sono quel piatto lì, perché non è il piatto per il piatto, ma il piatto per come è stato costruito, per la porcellana in cui viene servito, la scelta della posata, la scelta della tovaglia, tutto questo attiene a un ristorante. E nessuno in questo quartetto che è il Don Alfonso, lo racchiude così intimamente come fa questa donna”.

Dopo la laurea in Scienze Politiche presso L'Istituto Universitario Orientale di Napoli, ha conseguito il Dottorato di ricerca in Storia e Politica dell'Età Moderna e Contemporanea - Scuola Europea di Studi Avanzati (SESA) presso l'Istituto Universitario Suor Orsola Benincasa. Ha coniugato impegno sociale ed ambientale amministrando dal 1998 al 2003 la cooperativa sociale di tipo B "Città di Leonia". Dal 2009 al 2018 ha collaborato con la società di e-commerce Yes s.r.l. di Napoli. Appassionato di storia, politica e cucina, ama viaggiare a piedi per i cammini europei in compagnia della famiglia. Pratica da più di 10 anni competizioni di Vela Radiocomandata