Il cibo ed il nostro rapporto con l’altro: da Polifemo ad Obama

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Spezzare il pane con gli altri
©pixabay

Un italiano ed un americano vanno a cena fuori, quando uno dei due comincia a parlare in latino…

Non è l’incipit di una barzelletta, ma di un evento che risale al 18 ottobre 2016, quando Matteo Renzi, all’epoca primo ministro, è invitato a cena dall’ex presidente americano Barack Obama. Durante il brindisi di rito il premier sceglie di fare ricorso alle parole latine cum panis – da cui l’italiano “compagno” – per descrivere il tipo di legame che egli auspica tra Italia ed USA. Un legame di unione e comunanza, di quelli intimi e solidali che si instaurano tra due amici che, come si suol dire, “si spartiscono la pagnotta”. Un’espressione tanto inattesa quanto efficace, questa, che parte dal latino delle corporazioni medievali (cum panis, “colui con cui si divide il pane”) per giungere ad un cin cin alla White House. L’obiettivo? Spiegare il valore di un’alleanza politica attraverso i valori della tavola.

Il pane come simbolo di condivisione

Emblema di condivisione e comunanza, il pane ha in tale veste una sua specifica e lunga biografia. Già gli antichi Greci avevano coniato il termine artophagoi, “mangiatori di pane”, per definire la categoria degli umani e distinguerla da quella dei barbari. Questi ultimi, consumatori di ingenti quantità di carne, erano altrimenti detti monophagoi, “coloro che mangiano da soli”. Considerati alla stregua delle bestie, erano visti come esseri non in grado di spezzare il pane con nessuno, insomma, incapaci di stare nella rete dello scambio umano. Ecco che l’alimentazione del barbaro, per dirla con Erving Goffman, diviene il suo stigma, marchio di dis-umanità e di a-socialità. Ne è prova la sequenza dell’Odissea in cui Ulisse descrive Polifemo (IX, vv.187-92), un mostro gigante che “con gli altri non si mischiava, ma solo viveva, […] e non somigliava a un uomo mangiatore di pane, ma a picco selvoso d’eccelsi monti, che appare isolato dagli altri”.

Questa carica simbolica del pane, contrassegno di convivialità e socialità, non viene persa con la successiva cristianizzazione del Mediterraneo. Del resto, Gesù è il cum-panis per eccellenza, colui che “spezzò il pane” insieme ai suoi compagni, i discepoli. Tra i pilastri teologici dell’Eucaristia elencati nel Lauda Sion Salvatorem ed elaborati da san Tommaso D’Aquino, il pane, corpo di Cristo, assieme al vino, il suo sangue, è il “pasto comune” dei fedeli. Il cibo sacro, infatti, rende i credenti “commensali”, li riunisce ad una stessa mensa, quella celeste.

I cibi della religione cristiana: pane, vino e olio

Ad onor del vero, come ben sottolinea Elisabetta Moro in La dieta Mediterranea (2014), la religione cristiana non fa altro che tradurre nella propria liturgia quelli che erano gli antichi riti pagani connessi alla triade alimentare mediterranea: cereali, vino, ed anche olio (che è nel nome di Cristo, “l’unto”). Va pur detto che, nel processo traduttivo, non viene affatto perso quel significato di comunione, scambio e condivisione di cui tali cibi erano già stati simbolicamente caricati. Basti pensare al ruolo che aveva il vino nei cosiddetti simposi (“bere insieme”, da syn, che in greco antico indica un’unione, e pino, bere), eventi conviviali tra le più importanti istituzioni culturali della società ellenica. La somministrazione di vino ai convenuti era eseguita secondo le regole del simposiarca quale rievocazione del mito di Dioniso, che insegnò agli Ateniesi a mescerlo con l’acqua. Il rituale in tal senso definiva il confine culturale tra sobrietà ed ebbrezza, nonché quello tra il civile greco e l’”Altro”, il barbaro – che, come Polifemo, è solito tracannare la bevanda senza tagliarla. Una distinzione sociale, ancora una volta, dettata da una distinzione nelle abitudini a tavola, ma assolutamente necessaria per il popolo greco, in perenne contatto con “lo straniero” e, dunque, in perenne bisogno di circoscrivere la propria identità. Perfino dal punto di vista alimentare.

Il vino nei riti in onore di Dioniso

Non fu un caso che Atene, una delle prime città globalizzate dell’antichità, decise di affidare proprio al vino il compito di raccontare tutta la complessità del rapporto con quel “diverso” che quotidianamente sbarcava sulle coste elleniche. Nelle cosiddette “epidemie dionisiache”, riti in onore di Dioniso, questa divinità mascherata giunta da remote terre orientali e portatrice della bevanda dai poteri alteranti rappresentava infatti l’incarnazione dello straniero che all’improvviso arriva e destabilizza. Nel rituale colui che impersonava il dio doveva arrivare dal mare in barca, e coloro che si trovavano sulla terraferma dovevano fingere di scacciarlo. La mise en scène della cacciata, tuttavia, non alludeva al fatto che il forestiero dovesse essere respinto, ma a quanto l’accoglienza dell’Altro fosse una faccenda delicata, da gestire in modo oculato, come ricorda Marino Niola in Siamo tutti figli di un dio venuto da molto lontano (LaRepubblica.it, 2016). Perché lo straniero spesso e volentieri si presenta in modo dirompente, inaspettato. Proprio come l’epidemia, termine di origine religiosa che designa l’irruzione improvvisa di una potenza ignota, e che dà il nome al rito dionisiaco. O con lo stesso effetto di un bicchiere di troppo, che scuote gli animi. Semplicemente non bisogna farsi trovare impreparati.

Il cibo continua a parlarci dell’altro

Come in un fil rouge che lega il passato al presente, Gesù Cristo a Matteo Renzi, Dioniso ai migranti sui barconi, le questioni dell’accoglienza dello straniero e del contatto con il “diverso” si trascinano dal mito al telegiornale, per riproporsi nel medesimo spazio Mediterraneo in tutta la loro drammatica potenza paradigmatica. In questa cornice non è un caso che il cibo, adoperato anticamente per distinguere i barbari dai civili, rischi di divenire ancora oggi espediente per dividere, piuttosto che strumento per unire. Basti pensare a quanto accaduto in quel comune lombardo salito recentemente alla ribalta delle cronache, condannato per aver escluso bambini stranieri dalla possibilità di accedere alla mensa scolastica alle stesse condizioni dei bambini italiani. Per questo motivo, scavare, come con l’archeologia, in saperi e pratiche ancestrali legati al cibo, alla ricerca di sostrati mitico-rituali seppelliti sotto le macerie della storia, potrebbe servire a riportare alla luce antiche scene affrescate di contatto con l’Altro, immagini lontane nel tempo che, tuttavia, potrebbero rivelarsi quanto mai attuali. E perfino insegnarci qualcosa su noi stessi.