La seconda vita del Lambrusco: da Coca Cola italiana a vino di pregio

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©canva

 

Lo beveva Virgilio più di duemila anni fa. Catone, Varrone e Plinio il Vecchio ne tessevano le lodi. Il Lambrusco, vino italiano largamente prodotto in Emilia Romagna e nella Lombardia orientale, ha messo d’accordo, nel corso della sua storia millenaria, i palati più disparati: dagli autori latini, che lo celebravano nei loro testi, agli americani, che negli anni ’60 lo importavano in grandi quantità e per i quali rappresentava una specie di Coca Cola, tutta italiana. Negli ultimi tempi, però, questo vino frizzante, fresco, dal modesto tenore alcolico e dall’animo conviviale ha subito una metamorfosi: da prodotto essenzialmente economico e “da battaglia” è tornato a riscoprire le sue origini, prediligendo la qualità al posto della quantità e affidandosi a – poche ma buone – mani esperte.

Le origini del nome non sono certe: per alcuni la parola deriva dalla fusione dei termini labo (prendo) e ruscus (che punge il palato) e fa quindi riferimento all’essere “brusco”, ovvero ad una certa acidità e tannicità tipica dei vini giovani. Per altri l’etimologia sarebbe da far risalire al termine “labrum” (margine dei campi) e “ruscum” (pianta spontanea): secondo questa interpretazione, la pianta era forse una delle meno considerate nei vigneti, quella che cresceva incolta ai margini dei campi. Se è vero che l’origine del nome è ancora da stabilire, tali caratteristiche – quella dell’essere alla portata di tutti e, nello stesso tempo, di rappresentare un prodotto “acerbo”, non molto pregiato – sembrano aver segnato la storia del Lambrusco. Fino all’ultima inversione di tendenza.

A partire dagli anni ’60 questo vino contadino, da metodo ancestrale, si è piegato al metodo Charmat, il che ne ha notevolmente aumentato la capacità di vendita e ha fatto sì che fosse esportato in grosse quantità all’estero, soprattutto in America e in Cina, spesso snaturandosi e incarnando lo stereotipo di prodotto commerciale e, dunque, mediocre. Oggi, però, senza stravolgerne i tratti essenziali, alcuni dei grandi e piccoli produttori locali hanno deciso di restituirgli la sua anima più antica, di tornare a produrlo come un tempo. Ecco, allora, la rivoluzione. Ed ecco spiegato il motivo per il quale la maggior parte dei Lambrusco migliori non vengono ancora esportati: è come se si volesse conservare il loro carattere, il loro essere speciali.

Sono molte le iniziative enologiche ed enogastronomiche sperimentate negli ultimi anni che puntano alla rivalutazione qualitativa di questo vino che, con la sua identità finalmente messa a punto, riesce sempre più a raccogliere successi grazie al connubio perfetto tra qualità e tradizione. Prima tra tutte la nascita, nel 2015, dell’Osservatorio del Lambrusco, composto da un team di esperti di enologia con lo scopo di monitorare le diverse espressioni del Lambrusco, segnalando le proprie esperienze degustative inerenti alle nuove annate o alle evoluzioni di quelle passate, in modo da creare un database con dati e informazioni sull’evoluzione di un vino che, negli ultimi anni, sta raccogliendo sempre più consensi “dall’alto”, tanto da guadagnare spazio anche sulle tavole più blasonate. Un successo assicurato anche grazie a una delle sue caratteristiche salienti, ovvero la versatilità: il Lambrusco, infatti, con i suoi accattivanti profumi floreali e le spiccate note fruttate, oltre ad abbinarsi perfettamente a primi piatti, carne e salumi, può essere servito fresco come aperitivo (anche nella versione rosé) o impiegato nella preparazione di cocktails, sia nella sua versione secca che in quella amabile.