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La seconda vita del Lambrusco: da Coca Cola italiana a vino di pregio

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Lo beveva Virgilio più di duemila anni fa. Catone, Varrone e Plinio il Vecchio ne tessevano le lodi. Il Lambrusco, vino italiano largamente prodotto in Emilia Romagna e nella Lombardia orientale, ha messo d’accordo, nel corso della sua storia millenaria, i palati più disparati: dagli autori latini, che lo celebravano nei loro testi, agli americani, che negli anni ’60 lo importavano in grandi quantità e per i quali rappresentava una specie di Coca Cola, tutta italiana. Negli ultimi tempi, però, questo vino frizzante, fresco, dal modesto tenore alcolico e dall’animo conviviale ha subito una metamorfosi: da prodotto essenzialmente economico e “da battaglia” è tornato a riscoprire le sue origini, prediligendo la qualità al posto della quantità e affidandosi a – poche ma buone – mani esperte.

Le origini del nome non sono certe: per alcuni la parola deriva dalla fusione dei termini labo (prendo) e ruscus (che punge il palato) e fa quindi riferimento all’essere “brusco”, ovvero ad una certa acidità e tannicità tipica dei vini giovani. Per altri l’etimologia sarebbe da far risalire al termine “labrum” (margine dei campi) e “ruscum” (pianta spontanea): secondo questa interpretazione, la pianta era forse una delle meno considerate nei vigneti, quella che cresceva incolta ai margini dei campi. Se è vero che l’origine del nome è ancora da stabilire, tali caratteristiche – quella dell’essere alla portata di tutti e, nello stesso tempo, di rappresentare un prodotto “acerbo”, non molto pregiato – sembrano aver segnato la storia del Lambrusco. Fino all’ultima inversione di tendenza.

A partire dagli anni ’60 questo vino contadino, da metodo ancestrale, si è piegato al metodo Charmat, il che ne ha notevolmente aumentato la capacità di vendita e ha fatto sì che fosse esportato in grosse quantità all’estero, soprattutto in America e in Cina, spesso snaturandosi e incarnando lo stereotipo di prodotto commerciale e, dunque, mediocre. Oggi, però, senza stravolgerne i tratti essenziali, alcuni dei grandi e piccoli produttori locali hanno deciso di restituirgli la sua anima più antica, di tornare a produrlo come un tempo. Ecco, allora, la rivoluzione. Ed ecco spiegato il motivo per il quale la maggior parte dei Lambrusco migliori non vengono ancora esportati: è come se si volesse conservare il loro carattere, il loro essere speciali.

Sono molte le iniziative enologiche ed enogastronomiche sperimentate negli ultimi anni che puntano alla rivalutazione qualitativa di questo vino che, con la sua identità finalmente messa a punto, riesce sempre più a raccogliere successi grazie al connubio perfetto tra qualità e tradizione. Prima tra tutte la nascita, nel 2015, dell’Osservatorio del Lambrusco, composto da un team di esperti di enologia con lo scopo di monitorare le diverse espressioni del Lambrusco, segnalando le proprie esperienze degustative inerenti alle nuove annate o alle evoluzioni di quelle passate, in modo da creare un database con dati e informazioni sull’evoluzione di un vino che, negli ultimi anni, sta raccogliendo sempre più consensi “dall’alto”, tanto da guadagnare spazio anche sulle tavole più blasonate. Un successo assicurato anche grazie a una delle sue caratteristiche salienti, ovvero la versatilità: il Lambrusco, infatti, con i suoi accattivanti profumi floreali e le spiccate note fruttate, oltre ad abbinarsi perfettamente a primi piatti, carne e salumi, può essere servito fresco come aperitivo (anche nella versione rosé) o impiegato nella preparazione di cocktails, sia nella sua versione secca che in quella amabile.

Storia dell’olio di oliva: dai Romani alla dieta mediterranea

L’olio di oliva, ingrediente fondamentale della quasi totalità delle ricette appartenenti alla dieta mediterranea, accompagna l’uomo nel suo sviluppo da migliaia di anni.

Difficile datare con precisione a quanti secoli fa appartenga la domesticazione dell’ulivo, ma appare chiaro il ruolo centrale che occupa nella cultura ellenica, in qualità di bene di lusso dalla larga applicazione. Veniva usato principalmente per la cura del corpo e come combustibile per alimentare le lampade dell’epoca. Simbolo di pace e sapienza era associato alla dea Atena che l’ha donato agli uomini. E se il vino, per i classici, esaltava la mente e si esprimeva nel simposio, l’olio curava il corpo e lo esaltava nelle gare atletiche.

L’olio d’oliva ai tempi dei Romani

Ai Romani, invece, dobbiamo il merito di aver valorizzato l’uso alimentare che fino ad allora era sempre apparso secondario. Le conoscenze sulle qualità organolettiche e nutritive, sembra fossero chiare già all’epoca. L’olio andava ad arricchire di grassi e di sapore polenta, verdure e cereali che costituivano gli alimenti alla base della dieta dei Patrizi, i ricchi proprietari terrieri.

Le indicazioni per il mantenimento degli oliveti e per la produzione di olio, tramandate fino ai nostri tempi dai primi scrittori esperti di agronomia, sarebbero ancora oggi applicabili per migliorarne la qualità di olio prodotta.

Tecniche di coltura olearia

Risalgono proprio a questo periodo importanti perfezionamenti nella tecnologia olearia sapientemente raccontate dalle numerose opere latine scritte a partire dal III sec. a.c.

La più antica è Liber de agricultura di Marco Porcio Catone, nato a Tusculum una città del Lazio, terra di olivi, nel 234 a.c.; scrittore dell’opera summa della sapienza agricola del tempo in cui si possono leggere consigli e tecniche che tutti vorremmo vedere applicare anche oggi: “olea ubi lecta siet, oleat fiat in continuo, ne corrumpatur” tradotto “appena raccolte, bisogna subito estrar l’olio dalle olive, per evitare che si sciupi”.

Nella concezione romana l’oliveto inoltre, come coltura, costa poco e rende bene. Lucio Giunio Moderato Columella, autore del De re rustica che rappresenta la maggiore fonte di conoscenza sull’agricoltura romana, scriveva a riguardo nell’Arte dell’Agricoltura: “ex omnibus stirpibus minorem inpensam desiderat olea, quae prima omnium arborum est” tradotto “tra tutte le piante l’olivo è quello che richiede spesa minore, mentre tiene tra tutte il primo posto”.

Riguardo la qualità dell’olio d’oliva e le relative distinzioni appaiono evidenti ulteriori connessioni tra le nostre abitudini e quelle dei romani. Giovenale ad esempio irrideva un tale Virrone che maltratta gli ospiti di poca importanza: “Sul suo pesce Virrone versa olio di Venafro, mentre ai clientes viene dato olio da lucerne, un olio che usava dopo il bagno un tale, così acido e puzzolente, che alle terme per il tanfo tutti se ne tenevano alla larga”.

Risalente a circa duemila anni fa questo aneddoto dimostra una ottima conoscenza nella distinzione di un olio di buona qualità rispetto ad un olio scadente.

Antiche contraffazioni

Da un’inchiesta del dicembre scorso, realizzata dal programma televisivo RaiReport”, risulta evidente come sia frequente il tentativo da parte di diversi noti marchi italiani produttori di Olio, di mettere sul mercato sotto il nome di “Olio Extravergine d’oliva” o EVO, oli non solo non extravergine, ma a volte addirittura non adatti al consumo alimentare se non rettificati, i cosiddetti oli lampanti destinati un tempo all’illuminazione, ben distinti da quelli di qualità già all’epoca di Giovenale. Sembra quindi che le buone, come le cattive abitudini siano rimaste simili a distanza di secoli.

La contraffazione appunto sembra non essere una prerogativa del nostro tempo, anche Marco Gavio Apicio che è stato gastronomo, cuoco e scrittore, in una sua ricetta insegnava a contraffare l’olio utilizzando uno scadente prodotto spagnolo.

Oggi è molto frequente trovare in commercio bottiglie con etichette italiane il cui contenuto è frutto di un miscuglio di oli di diversa provenienza e oli italiani, tutto ciò chiaramente per poterne abbassare il prezzo di vendita. Ma il desiderio di contraffare un olio proveniente da altre nazioni e di qualità scadente nasce dal fatto che l’olio italiano viene considerato in assoluto il migliore, adesso come allora.

La situazione attuale è complicata poi dal fatto che il mercato italiano non riesce a soddisfare la domanda interna, le aziende italiane quindi sono costrette a importare ed è in questa occasione che spesso avvengono le contraffazioni.

La situazione attuale

Dal produrre da soli negli anni ’80 il 34% dell’olio d’oliva mondiale, adesso siamo ridotti a produrre uno stentato 14%, perché nel frattempo altri paesi, in primis la Spagna, sono venuti alla ribalta. L’Italia però, grazie appunto al processo di selezione delle cultivar effettuato dai Romani, e alle tecniche tramandate da millenni per produrre un olio d’oliva qualitativamente sempre migliore, è considerato il paese della biodiversità in olivo, con il maggior numero di cultivar autoctone. Infatti in totale nel nostro paese sono attualmente presenti oltre 500 varietà di olivo certificate differenti.

E come per Plinio il Vecchio che assegna all’olio di Venafro il primato assoluto tra gli oli – “Per l’olio il primato in tutto il mondo spetta a Venafro per i profumi, con i quali il suo odore lega bene, nonché il giudizio più raffinato del palato” – così noi ora possiamo fare affidamento sui 46 marchi Dop e Igp riconosciuti dall’UE, che assicurano di mantenere saldo il primato europeo della qualità negli oli extravergine di oliva italiani.

Tutto ciò grazie anche agli effetti positivi sulla salute associati al consumo di olio d’oliva, come attestano numerosi studi scientifici che ne hanno fatto impennare la domanda mondiale.

Negli ultimi anni nuovi mercati hanno manifestato interesse per questo alimento fino ad allora poco conosciuto, attratti dai primati di longevità tipici della dieta mediterranea. Eletta nel 2010 come patrimonio immateriale dell’umanità dall’UNESCO, la dieta mediterranea non può prescindere dall’uso dell’olio d’oliva. L’olivo non è più un albero esclusivamente mediterraneo, è uscito da tempo dalle colonne d’Ercole e ha raggiunto le Americhe, L’Australia e il Giappone.

Il cibo ed il nostro rapporto con l’altro: da Polifemo ad Obama

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Un italiano ed un americano vanno a cena fuori, quando uno dei due comincia a parlare in latino…

Non è l’incipit di una barzelletta, ma di un evento che risale al 18 ottobre 2016, quando Matteo Renzi, all’epoca primo ministro, è invitato a cena dall’ex presidente americano Barack Obama. Durante il brindisi di rito il premier sceglie di fare ricorso alle parole latine cum panis – da cui l’italiano “compagno” – per descrivere il tipo di legame che egli auspica tra Italia ed USA. Un legame di unione e comunanza, di quelli intimi e solidali che si instaurano tra due amici che, come si suol dire, “si spartiscono la pagnotta”. Un’espressione tanto inattesa quanto efficace, questa, che parte dal latino delle corporazioni medievali (cum panis, “colui con cui si divide il pane”) per giungere ad un cin cin alla White House. L’obiettivo? Spiegare il valore di un’alleanza politica attraverso i valori della tavola.

Il pane come simbolo di condivisione

Emblema di condivisione e comunanza, il pane ha in tale veste una sua specifica e lunga biografia. Già gli antichi Greci avevano coniato il termine artophagoi, “mangiatori di pane”, per definire la categoria degli umani e distinguerla da quella dei barbari. Questi ultimi, consumatori di ingenti quantità di carne, erano altrimenti detti monophagoi, “coloro che mangiano da soli”. Considerati alla stregua delle bestie, erano visti come esseri non in grado di spezzare il pane con nessuno, insomma, incapaci di stare nella rete dello scambio umano. Ecco che l’alimentazione del barbaro, per dirla con Erving Goffman, diviene il suo stigma, marchio di dis-umanità e di a-socialità. Ne è prova la sequenza dell’Odissea in cui Ulisse descrive Polifemo (IX, vv.187-92), un mostro gigante che “con gli altri non si mischiava, ma solo viveva, […] e non somigliava a un uomo mangiatore di pane, ma a picco selvoso d’eccelsi monti, che appare isolato dagli altri”.

Questa carica simbolica del pane, contrassegno di convivialità e socialità, non viene persa con la successiva cristianizzazione del Mediterraneo. Del resto, Gesù è il cum-panis per eccellenza, colui che “spezzò il pane” insieme ai suoi compagni, i discepoli. Tra i pilastri teologici dell’Eucaristia elencati nel Lauda Sion Salvatorem ed elaborati da san Tommaso D’Aquino, il pane, corpo di Cristo, assieme al vino, il suo sangue, è il “pasto comune” dei fedeli. Il cibo sacro, infatti, rende i credenti “commensali”, li riunisce ad una stessa mensa, quella celeste.

I cibi della religione cristiana: pane, vino e olio

Ad onor del vero, come ben sottolinea Elisabetta Moro in La dieta Mediterranea (2014), la religione cristiana non fa altro che tradurre nella propria liturgia quelli che erano gli antichi riti pagani connessi alla triade alimentare mediterranea: cereali, vino, ed anche olio (che è nel nome di Cristo, “l’unto”). Va pur detto che, nel processo traduttivo, non viene affatto perso quel significato di comunione, scambio e condivisione di cui tali cibi erano già stati simbolicamente caricati. Basti pensare al ruolo che aveva il vino nei cosiddetti simposi (“bere insieme”, da syn, che in greco antico indica un’unione, e pino, bere), eventi conviviali tra le più importanti istituzioni culturali della società ellenica. La somministrazione di vino ai convenuti era eseguita secondo le regole del simposiarca quale rievocazione del mito di Dioniso, che insegnò agli Ateniesi a mescerlo con l’acqua. Il rituale in tal senso definiva il confine culturale tra sobrietà ed ebbrezza, nonché quello tra il civile greco e l’”Altro”, il barbaro – che, come Polifemo, è solito tracannare la bevanda senza tagliarla. Una distinzione sociale, ancora una volta, dettata da una distinzione nelle abitudini a tavola, ma assolutamente necessaria per il popolo greco, in perenne contatto con “lo straniero” e, dunque, in perenne bisogno di circoscrivere la propria identità. Perfino dal punto di vista alimentare.

Il vino nei riti in onore di Dioniso

Non fu un caso che Atene, una delle prime città globalizzate dell’antichità, decise di affidare proprio al vino il compito di raccontare tutta la complessità del rapporto con quel “diverso” che quotidianamente sbarcava sulle coste elleniche. Nelle cosiddette “epidemie dionisiache”, riti in onore di Dioniso, questa divinità mascherata giunta da remote terre orientali e portatrice della bevanda dai poteri alteranti rappresentava infatti l’incarnazione dello straniero che all’improvviso arriva e destabilizza. Nel rituale colui che impersonava il dio doveva arrivare dal mare in barca, e coloro che si trovavano sulla terraferma dovevano fingere di scacciarlo. La mise en scène della cacciata, tuttavia, non alludeva al fatto che il forestiero dovesse essere respinto, ma a quanto l’accoglienza dell’Altro fosse una faccenda delicata, da gestire in modo oculato, come ricorda Marino Niola in Siamo tutti figli di un dio venuto da molto lontano (LaRepubblica.it, 2016). Perché lo straniero spesso e volentieri si presenta in modo dirompente, inaspettato. Proprio come l’epidemia, termine di origine religiosa che designa l’irruzione improvvisa di una potenza ignota, e che dà il nome al rito dionisiaco. O con lo stesso effetto di un bicchiere di troppo, che scuote gli animi. Semplicemente non bisogna farsi trovare impreparati.

Il cibo continua a parlarci dell’altro

Come in un fil rouge che lega il passato al presente, Gesù Cristo a Matteo Renzi, Dioniso ai migranti sui barconi, le questioni dell’accoglienza dello straniero e del contatto con il “diverso” si trascinano dal mito al telegiornale, per riproporsi nel medesimo spazio Mediterraneo in tutta la loro drammatica potenza paradigmatica. In questa cornice non è un caso che il cibo, adoperato anticamente per distinguere i barbari dai civili, rischi di divenire ancora oggi espediente per dividere, piuttosto che strumento per unire. Basti pensare a quanto accaduto in quel comune lombardo salito recentemente alla ribalta delle cronache, condannato per aver escluso bambini stranieri dalla possibilità di accedere alla mensa scolastica alle stesse condizioni dei bambini italiani. Per questo motivo, scavare, come con l’archeologia, in saperi e pratiche ancestrali legati al cibo, alla ricerca di sostrati mitico-rituali seppelliti sotto le macerie della storia, potrebbe servire a riportare alla luce antiche scene affrescate di contatto con l’Altro, immagini lontane nel tempo che, tuttavia, potrebbero rivelarsi quanto mai attuali. E perfino insegnarci qualcosa su noi stessi.

“Chino ‘e devuzione!”: che cosa mangiamo a Natale?

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“Il cibo è il vero carburante della storia poiché l’uomo mangia per vivere e vive per mangiare” (Marino Niola).

Ciò che ha differenziato l’uomo dall’animale, nel corso della storia, non è stata solo la necessità fisica di soddisfare la sua fame, ma anche la sua capacità di trarre gusto dalla nutrizione e vedere nel cibo un carburante ma anche uno sfizio del palato.

Ogni cucina, così, si è tramutata nello specchio della società che l’ha fondata e che proprio a tavola assume un’unica identità.

Ed è esattamente da una tavola che siamo reduci, sto parlando delle due grandi vigilie appena passate.

Credenti o no, seguendo i menù tradizionali o creandone di nuovi, nessuno di noi ha potuto sottrarsi dal celebrare l’indiscussa protagonista di questi giorni di festa: la gola.

Tutto ha l’aria di essere una messa sacra all’insegna della gastronomia e della convivialità, perché mangiare da soli è da barbari!

“Le cene della vigilia rappresentano il luogo degli affetti e rifiutarle rappresenta una volontaria rinuncia al senso comunitario” (Marino Niola).

Non a caso i piatti tipici e soprattutto i dolci, che già dal Cinquecento rappresentavano un vanto di molti luoghi sacri, erano chiamati devozioni.

Dagli struffoli ai rococò, dalle paste di mandorle ai mostaccioli, la grande abbuffata è ricca di simboli che sin dalla notte dei tempi hanno a che fare con l’origine e ancora alimentano l’immaginario festivo degli italiani.

Il nuovo anno è arrivato ma le feste non sono terminate.

L’ultimo round che vede ancora i nostri palati invitati a partecipare è alle porte: la notte della Befana.

Sintesi cristiana delle divinità pagane di inizio anno la notte della Befana condivide con Natale l’attesa magica di premi e castighi, dolciumi e carbone che per tradizione ogni bambino, piccolo e grande che sia, ritrova nella calza la mattina del 6 gennaio.

É proprio questo accessorio, la calza, a rappresentare la vecchina che in sella ad una scopa se ne va svolazzando sui tetti delle nostre case pronta a presentare lo scrutinio di fine anno.

Da quella di Batman a quelle tramandate di anno in anno, un po’ logore e scambiate, appese al camino o ai piedi del letto, la calza abbondante, stracolma di zucchero è l’ultima consuetudine e traguardo da raggiungere per sigillare definitivamente l’anno passato!

La Befana vien di notte

con le scarpe tutte rotte

con le toppe alla sottana:

Viva, viva la Befana!

 

Elisabetta Moro e la dieta mediterranea: per una razione K di benessere

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Dieta Mediterranea e Pizza
Dieta Mediterranea e Pizza. Due patrimoni

E’ un vero e proprio invito al viaggio che ritroviamo nella ricostruzione degli elementi storici e mitici caratterizzanti la dieta mediterranea compiuta dalla professoressa Moro.

Un invito a mettersi in cammino per la ricerca della propria personale razione K adatta al presente. Non si parla ovviamente di una cura dimagrante, ma di uno stimolo all’individuazione di una vera e propria filosofia di vita nell’epoca della società opulenta.

L’inventore della razione Kappa

Il K fa riferimento al nome del protagonista principale della nostra storia, quel Ancel Keys inventore durante la seconda guerra mondiale di quella razione K essenziale per i soldati americani per la sopravvivenza quotidiana, e nel dopoguerra scopritore di quella Mediterranean way come nuovo Eldorado. La nostra Machu Picchu cilentana, in grado di fornirci gli strumenti per una risposta a sfida alla tossicità della società consumistica.

E allora il primo percorso da compiere sta nel seguire le tracce lasciate da questo professore del Minnesota e massimo esperto di nutrizione umana del Novecento.

Il viaggio in Italia dei coniugi Keys

E con la Moro abbiamo modo di scoprire il tortuoso e affascinante viaggio compiuto dai coniugi Keys. Sì, perché questa avventura alla scoperta del Mediterraneo va coniugata al plurale per la presenza essenziale e attiva della moglie Margaret Haney, allora biologa della Mayo Foundation.

Nel tragitto compiuto dai Keys, con partenza dagli Stati Uniti e passaggio a Oxford, un ruolo di snodo essenziale è ricoperto da Napoli, meta finale di un viaggio in Italia nel ’52 tra l’avventuroso e il romantico.

Per questi “Marco Polo della medicina” l’arrivo a Napoli con una piccola utilitaria comprensiva di laboratorio da campo rappresenta un vero e proprio rito di passaggio: una scoperta del Mediterraneo in grado di cambiare la vita dei due scienziati e la storia della scienza della nutrizione.

E’ nel mese trascorso a Napoli che si svelerà agli occhi di “Mr Cholesterol” la relazione tra colesterolo, patologie cardiovascolari e regimi alimentari come terapia preventiva.

Il Seven country study

Da questa intuizione napoletana scatterà un ulteriore e complesso percorso: un cammino di ricerca comparativo, tutt’ora in corso – il Seven country study – in grado di poter dare una risposta ai dati drammatici relativi al numero di americani destinati ogni anno a morire a causa di un infarto.

Insomma, tutto faceva presumere che l’alimentazione dei napoletani poveri – pochissima carne, pochi prodotti lattiero-caseari, ma prevalentemente pasta, verdura e frutta di stagione, fosse più sana di quella degli americani e delle sue propaggini sparse per il mondo in cammino verso l’opulenza.

La dieta mediterranea come patrimonio culturale immateriale dell’umanità

Interessante sarà allora seguire i fili di un tragitto che a partire dal Seven country study porterà da un lato al riconoscimento Unesco nel 2010 della dieta mediterranea come patrimonio immateriale dell’umanità; e dall’altro lato all’elaborazione dello stile di vita mediterraneo da semplice tema di studi a pratica di vita e insieme di conoscenze da diffondere.

Comprendiamo così un’ulteriore tappa del viaggio dei Keys: la ricerca di un luogo in grado di sostanziare l’elaborazione teorica della “mediterranean way”.

Quel Cilento in grado di prendere il testimone di quella ideal-dieta individuata e presto smarrita a Napoli per l’omologante boom economico.

Pioppi e il Cilento

Da Pioppi, paese prescelto come sede di buen retiro dai Keys dalla metà degli anni ’60, scaturirà così un ennesimo e complesso percorso di elaborazione e consapevolezza culturale in grado di combinare eredità di un mondo classico e tradizioni locali.

Processo coinvolgente in modo sempre più inteso le popolazioni del Cilento e suscettibile di innescare un dialogo interculturale che dal Mediterraneo possa interessare il mondo intero.

 

Fotografare cibo a Natale: si tratta di una nuova tradizione?

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“Te piace ‘o presepio”

“A me nun me piace ‘o presepio” (Natale in casa Cupiello)

Anno 2018, Italia. E’ la sera del 24 dicembre e il Paese si è fermato per assaporare le prelibatezze preparate in famiglia. D’un tratto, eccolo: il “Nennillo” che sguaina la propria arma acquistata sulla bancarella di turno e comincia a colpire a suon di otturatore. Cosa sta facendo? Scatta.

La tavola è imbandita, non si rispetta quasi mai una vera e sola tradizione. La creatività è di famiglia, di tutte le famiglie ma ciò che mette d’accordo proprio tutti sulle tavole degli italiani, sono l’abbondanza e gli smartphone.

Come tutte le forme della “tradizione”, anche quella natalizia è legata a persone e territori, si costituisce e si insidia nell’habitat culturale in modo spesso spontaneo e diversificato. C’è un fattore però, che si muove indistintamente da nord a sud, favorisce connessioni, sfonda barriere spazio-temporali e crea illusioni: fotografare il cibo e condividerlo sui social network. Per alcuni si chiama Food Porn, per altri, semplicemente #pranzodinatale, ciò che conta è condividere con i commensali e con il resto del mondo “social”.

Se “‘o presepio” di De Filippo rappresenta la “tradizione”,  l’allontanamento dal presepe potrebbe rappresentare un latente senso di ribellione verso una qualche “autorità”, un po’ come accade oggi con le nostre tavole. Ci piace fotografare il cibo, l’abbondanza e la convivialità ma quanto c’è di vero in tutto questo? quanto basta per porsi una domanda e trovare su google la soluzione espressa in punti: “Come fotografare il cibo in 10 suggerimenti”. Questo fenomeno incorpora in sé stesso non poche contraddizioni e i dispositivi “social” vengono spesso semplificati, ridotti a “non luoghi” virtuali. In realtà, come lo stesso Augé ha sostenuto, le chiavi di lettura sono molteplici. Persino un “non luogo” può trasformarsi in “luogo” se al suo interno hanno la possibilità di svilupparsi delle reti sociali.

Non manca l’ironia, c’è chi giura di aver mangiato lo stesso nonostante non abbia postato foto sul suo profilo Instagram, noi proviamo a crederci. Per quanto riguarda i “nativi digitali”,  hanno acquisito questa nuova “tradizione”, il più delle volte trovata sotto l’albero con l’ultimo modello di smartphone disponibile sul mercato. Tutto questo potrebbe essere simile ad un istinto, qualcosa di innato e “sovversivo” come quello di preferire l’albero di Natale a ‘o presepio in casa Cupiello ma in fondo, c’è abbastanza spazio per entrambi.

Ricettario di famiglia: l’anello di congiunzione tra passato e futuro

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Un meraviglioso passo di Borges recita alla perfezione la nascita della creazione postmoderna dell’arte e della cultura: “Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per strada, ricomincia la storia del calcio” e lo stesso discorso vale per la tradizione gastronomica ed il ricettario di famiglia.

La cultura della gastronomia ha una peculiarità atroce ed unica, perchè basta saltare una generazione per perdere totalmente quel determinato costume.

Nelle famiglie i processi di “detradizionalizzazione” sono sempre lentissimi, perché basta una scintilla, basta una ragazza che prende “a calci qualcosa” per casa e subito quella tradizione viene rinnovata. Tradizione nel senso più viscerale del termine, ovvero quello di tràdere, consegnare, trasmettere ed è qui che entrano in gioco i ricettari di famiglia, spesso dei quadernetti vecchi e logori che hanno tatuato indelebilmente l’inchiostro della vita, una vita vissuta, una vita fatta di pranzi e cene, di feste e riunioni.

Il gesto è spesso, tutt’altro che istintivo. Le ricette di famiglia non sono mai in bella mostra ma custodite gelosamente nei meandri della cucina, unica eccezione cartacea al trionfo di spezie ed utensili. L’atto è voluto, quello di prendere una sedia, salirci sopra e arrampicarsi sui mobili della stanza alla ricerca di qualcosa che non sei sicuro di trovare. Non c’è indicizzazione, c’è solo speranza di trovare ciò che si cerca.

Una volta trovata la ricetta, la si deve decifrare: “Risotto alla pescatora. Ingredienti: 600g riso, 300g vongole, 300g cozze, 300g lupini, 300g fasulari, 100g camberi, 100g calamari, un fileto di acciuga, peperoncino, prezzemolo tritato, sale qb, olio di oliva, vino bianco, 3 spicchi d’aglio, un poco di pomodori. Prcedimento: facciamo aprire i frutti di mare, si sgusciano e il sugo si porta a termine” e la ricetta continua. Una punteggiatura ed una grammatica molto lontana dalla Treccani. C’è tutto il procedimento però, tutto il sentimento e l’attenzione di una persona che a mano scrive e segue una ricetta che poi viene tramandata.

Non è solo questo, non è solo cucina perché “La cucina eccede la sazietà, va oltre il necessario, ambisce a soddisfare il piacere” come dice Heinz Beck e tra i piaceri soddisfatti ci sono i ricordi. Nei ricettari, soprattutto quelli che derivano da tradizioni scolastiche fatte di scuole alberghiere ed esperienze sul campo, il ricordo è la vita stessa. Scorrendo un ricettario si può leggere “Pino Vincenzo III A” (rigorosamente prima il cognome e poi il nome come insegnavano a scuola), ed allora il ricordo di quegli anni liceali riaffiora e da quel ricordo si può ricavare un altro pezzetto del puzzle che corrisponde alla vita della propria famiglia, dei propri genitori, dei propri nonni e dei propri zii. Si aprono nuove zone della mappa, come nei videogiochi strategici di inizio millennio. Basta chiedere e quindi la tradizione, cartacea, si unisce a quella verbale.

Il ricettario di famiglia non è solo uno scrigno di ricordi ed un oblò sull’Italia, è l’anello mancante tra genitori e figli, tra nonni, zii e nipoti, che è sempre bene dissotterrare e far rivivere.

 

N.B.

La ricetta prosegue: “I gamberi e i calamari si tagliano a dadino o alla julienne, a parte in una casseruola. Prepariamo il fondo con aglio, olio e peperoncino, si fa imbiondire e poi si aggiungono i calamari ed i gamberi, si fanno cuocere 4-5 minuti e si aggiungono i frutti di mare, si bagna col vino bianco, lasciamo evaporare per qualche minuti e aggiugiamo il succo dei frutti di mare. Facciamo cuocere per 5 minuti e si aggiungono i pomodori. Il riso va cotto come un risotto normale”.

IX edizione del Master in Comunicazione Multimediale dell’Enogastronomia

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Hai tempo fino al 7 novembre per compilare la Domanda di Ammissione al Master. Compila la domanda qui: www.unisob.na.it/enogastronomia

Vitignoitalia: Progetto Academy e Prima Ambasciatrice

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Vitignoitalia presenta il nuovo progetto Vitignoitalia Academy a poco più di un mese dall’attesa anteprima del 26 novembre. L’idea nasce dalla volontà di coniugare il mondo del business alla passione per l’enogastronomia. Attraverso la collaborazione di personaggi del mondo enogastronomico, della cultura, dello spettacolo si punta, quindi, a promuovere Vitignoitalia in Italia e all’estero.

In una serata privata organizzata da Maurizio Cortese che ha avuto come teatro il ristorante napoletano La Cantina di Triunfo, è stata eletta Mariella Caputo come prima ambasciatrice del progetto.

Tale scelta “va aldilà dello spessore umano e professionale della sommelier” e rientra nella volontà di creare un collegamento tra le cantine che partecipano alla manifestazione e i ristoranti di livello. Infatti, anima della Taverna del Capitano, detentrice del titolo di Primo Sommelier della Campania, Mariella è la figura che racchiude in sé gli elementi ricercati – la grande passione per i vini e la conoscenza del mondo dell’alta ristorazione.

“Per me sarà un piacere, oltre che un onore – ha commentato Mariella Caputo – assolvere al ruolo di ambasciatrice non solo proponendo questi vini in abbinamento ai nostri piatti ma anche e soprattutto raccontando ai nostri clienti l’importanza di una manifestazione come Vitignoitalia”.

Così parla l’Ambasciatrice, con riferimento ai vini selezionati come vincitori al Napoli Wine Challenge, il contest che da alcuni anni caratterizza, con un panel di assoluto valore, le giornate di Vitignoitalia.

L’evento al Castel dell’Ovo

Queste ultime, in programma per il 2019 dal 19 al 21 maggio a Castel dell’Ovo, saranno caratterizzate, oltre che dalla presenza di migliaia di winelover, dalla sempre più massiccia partecipazione di operatori di settore, “un plus che le aziende espositrici ovviamente gradiscono e che noi intendiamo migliorare con tutta una serie di iniziative che stiamo mettendo in cantiere” – Maurizio Teti, Direttore di Vitignoitalia.

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Lo studente affronterà un percorso formativo molto specifico che tratterà temi molto diversi tra loro: Marketing Management, Web Marketing, Organizzazione Eventi, Laboratori Sensoriali e tanto altro. Inoltre le visite guidate rappresentano una possibilità di toccare con mano quelle che sono le realtà enogastronomiche del territorio. Altra caratteristica importante che contraddistingue questo percorso formativo è la possibilità di effettuare Stage con importanti aziende come Pastificio dei Campi, Ferrarelle, Mastroberardino, Feudi di San Gregorio, Unilever, Kimbo e tante altre.

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