Il live da Identità Golose 2019 con Giusy Caso e Leonardo Ciccarelli per le ultime novità dal Day III di #IGMI19
Mariella Caputo: un’Ambasciatrice del gusto a Identità Golose.
Classe 1967, Mariella Caputo è sommelier e titolare con il fratello Alfonso della Taverna del Capitano, ristorante stellato a Marina del Cantone / Massa Lubrense (NA). Dopo il liceo scientifico si è iscritta alla facoltà di Economia e Commercio, ha studiato pianoforte, come lei stessa ripete più volte “quasi odiavo il ristorante perché era il luogo che teneva lontano i miei genitori”. Ma il richiamo “dell’alta gastronomia e dell’eccellenza enologica finirono per conquistarla”. Inizia frequentando corsi di sommelier fino a diventare primo sommelier della Campania e finalista al concorso Primo sommelier d’Italia nel 1994. Da allora è un continuo evolversi. Oggi è considerata la Regina della sala.
Ambasciatrice del Gusto
Mariella è socia dell’associazione “Ambasciatori del gusto”, associazione senza scopo di lucro che intende rappresentare in ogni suo aspetto e declinazione l’eccellenza della ristorazione e della pasticceria italiana. Ne fanno parte cuochi, ristoratori, pizzaioli, sommelier, personale di sala, pasticcieri e gelatieri. Uno dei progetti fondamentali di questa associazione, e su cui Mariella Caputo punta, è la formazione. Come lei stessa ammette in un’intervista, “La scuola ti può dare la tecnica ma non basta, si sente il bisogno di acquisire professionalità”.
Nella seconda giornata di Identità golose 2019, nel panel Futuro e Formazione, Mariella Caputo ci ha raccontato la sua esperienza.
“Bisogna innamorarsi, anzi bisogna far innamorare. Si deve lavorare in rete, lavorare insieme e creare uno staff. Se io oggi sono qui devo ringraziare i miei collaboratori, perché loro sono al ristorante a lavorare. Per far funzionare un ristorante è importante la collaborazione tra le parti, dalla cucina alla sala. Chi va al ristorante, soprattutto di un certo livello, ci va per fare un’ “esperienza”, non semplicemente per mangiare. E quindi diventa importante anche l’accoglienza oltre al buon cibo. La prima e l’ultima persona che vedi in un ristorante è il cameriere. Avere un cameriere che sa consigliarti cosa mangiare, un sommelier che non solamente sa abbinare i vini ai piatti che hai scelto ma capisce cosa ti piace e ti aiuta nella scelta, questo fa la differenza. Ma per acquisire questa professionalità ci vuole formazione ed esperienza.”
Racconta poi una delle esperienze vissute in sala:
“Una sera al tavolo si è seduta una coppia, lei giovane e bellissima, lui un po’ più attempato. Io mi sono avvicinata, gli ho chiesto che vino preferisse, lui ha scelto un vino di un’azienda importante ma un vino di base perché voleva restare leggero.
Io prendo la bottiglia, gliela presento, stappo e il tappo è di silicone. Verso il vino, il signore si gira verso di me ed esclama:
Sa di tappo!
Chi mi conosce sa che non ho un carattere facile, sorrido ma non troppo, la mia professionalità in quel momento ha vacillato. Non sapevo cosa fare. Ero portata a dire: ma guarda che il tappo è di silicone. Il maître del ristorante mi ha vista in difficoltà e mi ha guardata come per chiedermi cosa fosse successo. Mi ha quindi consigliato, in disparte, di tornare indietro, prendere un’altra bottiglia e consegnarla al cliente.
Io l’ho fatto.
Se avessi detto al cliente, invece, che il tappo era in silicone lui avrebbe fatto una figuraccia con la persona che lo accompagnava ed io avrei perso il cliente. Avrebbe giudicato il vino cattivo, il ristorante cattivo e la serata saltata. Non sarebbe più tornato. Invece torna sempre, non sceglie più il vino e chiede a me”.
Il giorno in cui Massimo Bottura danzò con Alain Ducasse
Come Uma Thurman in Pulp Fiction, come John Travolta nel medesimo film che in un meraviglioso ballo sulle note di Chuck Berry citano gli Aristogatti mentre danzano. Questi sono stati Massimo Bottura ed Alain Ducasse, con il primo nelle vesti della bella Mia Wallace, ed il secondo inizialmente reticente nelle vesti di Vincent Vega.
Passo indietro, cos’è successo?
Il day two di Identità Golose 2019 ha avuto l’acme ad ora di pranzo, con l’omaggio ad Alain Ducasse (primo chef straniero a ricevere questa onorificenza) da parte di quattro dei suoi più noti allievi: Davide Oldani, Andrea Berton, Carlo Cracco e proprio Massimo Bottura.
I primi tre sono stati serafici, evangelici con il solo Oldani che ha azzardato una seduta speciale per Ducasse, prima di arrivare a Bottura.
Il piatto è stato annunciato immediatamente: ravioli con ripieno di porri, tartufo nero e foie gras. In sala si elevano i cellulari, vogliono riprendere questa scena, del Genio a lavoro ma dopo pochi secondi ci si dimentica del piatto stesso, preparato dal fido Taka Kondo.
Bottura si prende il palco e comincia a scherzare con Ducasse che fino a quel momento aveva parlato solamente in francese con una traduttrice. Bottura no, gli parla in italiano perché Ducasse lo capisce e lo parla, ci scherza e il maestro ride, seduto inerme, perché probabilmente sa cosa lo aspetta.
Lo show prosegue, con una storia, quella di una cena per degli “amici” di Ducasse a Parigi, in cui Massimo Bottura avrebbe cucinato per i 60 commensali.
La brigata del cuoco dell’Osteria Francescana è quasi solamente italiana e tra mille difficoltà tira fuori dei piatti, su tutti la pasta perché da buon italiano, ci tiene alla tradizione. Ducasse se la gode, perché anche qui, dopo l’aceto, ci mette il suo da buon francese e scherza sulla semplicità della cottura del prodotto ma Bottura risponde, a suon di aneddoti e curiosità. Ducasse, come il Signor Burns, è paralizzato dalla “rabbia e dal ritmo tribale” mentre l’Homer Bottura ci scherza su.
Gli amici di Ducasse, scopriremo essere 45 giornalisti “snob parigini, il restante erano cuochi ed allora io non ci ho visto più, dovevo fare il raviolo. Per me il raviolo è un contenitore di idee. Dovevamo presentarlo alla sala ed allora arrivo, tutto serio e dico il nome del piatto: il sogno di un cuoco francese di fare la pasta come un italiano” scherza Massimo Bottura. Ducasse ride, poi Bottura aggiunge: “Alain lo assaggia, si alza in piedi nel silenzio più totale e comincia ad applaudire, poi lo fanno tutti gli altri. E’ stata una delle esperienze più segnanti fatte con la mia squadra”.
Così conosciamo di nuovo il piatto, perché quello è l’omaggio di Bottura: “Nel mio raviolo inserisco il meglio della cucina francese, porri, foie gras e tartufo nero, mentre all’esterno c’è la perfezione della pasta fatta come solo un italiano sa fare”. Il piatto viene finito con una salsa dolce acidula a base di ristretto di Riesling.
Standing ovation. Quel piatto era lì, cucinato davanti agli occhi di centinaia di persone, perfino annunciato all’inizio ma Bottura ha sintetizzato la differenza intrinseca tra il “dire” ed il “Comunicare”, che è la stessa differenza tra il “nutrirsi” ed il “mangiare”.
Non è finita qui, mentre l’auditorium di Identità Golose 2019 è in tripudio, lo chef modenese prosegue il racconto: “Ducasse mi ha trasmesso la disciplina ancor più della scuola spagnola di El Bulli con Ferran Adrià– ha concluso Massimo Bottura -. Per me la folgorazione è stata la sua ossessione per la qualità. Ricordo ancora che, quando uscii dal Louis XV, Ducasse mi stracciò tutti gli appunti e mi disse: Hai imparato le tecniche, ora devi camminare con le tue gambe. Al momento non capii, ma oggi sono ancora qui a ringraziarlo”.
Abbracci, lacrime, sipario.
Secondo giorno di Identità Golose Milano: l’omaggio ad Alain Ducasse
Oggi 24 marzo 2019 la gastronomia d’eccellenza si è data appuntamento a Milano. Nomi del calibro di Andrea Berton, Carlo Cracco, Davide Oldani e Massimo Bottura si sono infatti riuniti in occasione di Identità Golose Milano 2019 (qui un resoconto della prima giornata) per rendere omaggio ad uno tra i maggiori riferimenti internazionali dell’alta cucina, il celebre Alain Ducasse. “C’è uno spirito comune che unisce la cucina francese a quella italiana”, ha affermato lo chef, confessando di essersi sempre ispirato alla tavola italiana, ma non mancando di scherzare su come lui sia “partito da ottime basi…per poi migliorarle”.
Oltre ad una certa fama, ad accomunare gli chef nostrani sul palco del MiCo è infatti un passato di collaborazione con il cuoco francese. E dunque, quale modo migliore per i quattro stellati italiani di illustrare cosa sia per loro il “fattore umano” – uno dei temi centrali del congresso – e la grande importanza che questo riveste tra i fornelli, se non attraverso un tributo alla genialità di Ducasse?
Alternandosi tra i piani cottura, tutti hanno realizzato delle proposte culinarie che ricordassero in qualche modo la loro esperienza al fianco dello chef d’oltralpe. Incantevole la patata con brunoise di verdure, tartufo e brodo di asparagi di Berton, creata in memoria dei mesi trascorsi a tornire verdure e molto apprezzata da Ducasse per il modo in cui la ricetta ha esaltato ogni singolo ingrediente. È di Cracco, invece, la crema di spugnole con tartufo bianchetto, pere marinate e noci cotte nel latte, un piatto con cui ha voluto avvicinarsi a quella perfezione tanto richiesta dallo chef francese durante l’anno e mezzo trascorso al Louis XV.
La preparazione dell’acqua di pomodoro è quanto rimasto impresso nella mente di Oldani, che infatti sfoggia un trancio di rombo condito con tale liquido filtrato attraverso un particolare panno di lino. È Oldani stesso, poi, a ricordare alla platea in sala la triade tanto cara allo chef francese. Naturalité. Essentialité. Beauté. Le innovazioni che Ducasse ha portato in cucina circa trent’anni fa; le novità di ieri che, come è stato ben sottolineato, sono divenute la tradizione dell’oggi, altro tema cardine di Identità Golose 2019.
A chiudere in bellezza è arrivato Bottura, con i suoi ravioli ripieni di porro, tartufo e foie gras, ma soprattutto con i suoi aneddoti più che spassosi sulle collaborazioni con lo chef francese: “per me il raviolo è un contenitore di idee e rappresenta il sogno di un cuoco francese di fare la pasta come un italiano ” ha scherzato lui, provocando il sincero sorriso di Ducasse.
Momenti di grande impatto emotivo per la seconda giornata del Congresso, ma anche di significative lezioni di vita. Tra queste, l’importanza di essere sempre professionali, di non scordare mai disciplina e rigore, di puntare alla massima qualità, ma anche e soprattutto di restare “umani”. E dalla profonda amicizia e immensa stima che corre tra questi grandi della cucina non possiamo che imparare.
Identità Golose 2019, un’edizione all’insegna delle nuove tradizioni
“La tradizione è un’innovazione riuscita” dice Paolo Marchi, direttore di Identità Golose che inaugura l’edizione 2019 con un tema molto importante e sentito negli ultimi tempi: costruire nuove memorie.
Il primo giorno di #IGmi19 è stato incentrato sul rapporto che queste tradizioni hanno anche rispetto all’ambiente televisivo e a come il rapporto tra la gastronomia ed il cooking show sia stato d’aiuto a tutto il movimento.
Ad inaugurare la 3 giorni di Identità Golose proprio Marchi, come detto, con Identità Tv- 60 anni di alta qualità a tavola, con lui Federico Quaranta e Davide Rampello che hanno poi cominciato un excursus attraverso gli anni, con il docente universitario che si è soffermato sui paesaggi rurali dell’Italia in tavola, salvo poi lasciare il posto a Dante Sollazzo ed Antonino Cannavacciuolo: Masterchef, nulla è stato più come prima.
Sollazzo, Responsabile dell’Intrattenimento di Endemol Shine Italy, ha spiegato ai tanti presenti il lavoro che c’è dietro Masterchef , “Per la prima volta la cucina non è raccontata alla maniera di un tutorial: il racconto è espresso da gente normale che sogna un riscatto”, ma la scena se l’è poi presa lo chef di Vico Equense, istrionico e affascinante come suo solito.
Cannavacciuolo sta bene sul palco, è a suo agio con una mole un po’ da Gargantua e un po’ da Pantagruel, non si prende sul serio ma trasuda leadership e questo è forse il pregio maggiore di un due stelle Michelin.
All’inizio Cannavacciuolo non voleva fare tv, lo ha sempre detto e lo ha ripetuto anche nell’auditorium di Identità Golose: “Fare tv è complesso, ma appagante. Non volevo farlo all’inizio perché ti può ammazzare: oggi sei un eroe, domani un mentecatto e per me l’importante è stare bene”. Scherza poi sul suo fisico, perché anni fa si giocava sul “Fisico bestiale” e racconta al pubblico la fatica che ha fatto per perdere 25kg dagli esordi in tv ad oggi: “Frutto di lavoro, dedizione e allenamento, corro 50 km la settimana”.
La domanda che però tutti gli utenti si pongono quando vedono gli chef in tv è una sola, ma al ristorante, chi ci sta? E Cannavacciuolo toglie anche questo dubbio: “Grazie alla tv ho potuto creare lavoro, educare tanti ragazzi che stanno in cucina con me e che sono cresciuti tanti, come Vincenzo e Nicola che da dicembre sono diventati anch’essi stellati. E’ difficile coniugare il tutto ma si fa con sacrificio. Appena sceso dal palco andrò a Villa Crespi per il servizio, poi di nuovo domani a Milano e ancora e ancora”.
Un lavoro fatto di sacrificio e dedizione dunque, come quello che ha portato due show storici, ad essere nuove tradizioni: Antonella Clerici prima, con lo stellato Davide Oldani, Giuseppe Bosin e Federico Fazzuoli poi hanno parlato di quanto sia stato importante l’approdo de La prova del cuoco e di Linea Verde nelle tv degli italiani, di quanto siano stati precursori nei tempi su temi quali la salute, la stagionalità delle materie prime ed il biologico. Un lungo percorso, cominciato nel 1981 con la prima puntata di Linea Verde per arrivare ai giorni nostri, sempre con un occhio verso il pubblico, così come ce l’ha Gioacchino Bonsignore, giornalista del TG5 che, con Sposini e Mentana, ha portato l’enogastronomia nel telegiornale.
“Cinque minuti su trenta di telegiornale sono stati dedicati all’enogastronomia, è una cifra enorme di tempo ma è stato importante perché oggi, se tutti quando hanno un bicchiere di vino lo mettono in controluce e cominciano a sparare parole a caso, forse è anche un po’ colpa nostra” dice, scherzosamente, il collega di Mediaset.
Al termine della parentesi giornalistica si è tornati sugli artigiani del lavoro, spostandosi verso la pasticceria: Clelia D’Onofrio ed Ernest Knam parlano di Bake Off Italia, fortunato cooking show sulla pasticceria.
L’elegantissima storica ha affascinato il pubblico con la sua classe innata, la sua pacatezza ed i suoi innocenti racconti, anche di come le persone, ormai in tarda età, hanno cominciato a riconoscerla per strada ed il suo rapporto con i bambini, davvero toccante. Il pasticcere tedesco ha messo il punto sul lato tecnico, lui che da anni è tra le firme più prestigiose delle pasticcerie del globo. Knam è soddisfatto del proprio lavoro: “Non posso parlare troppo tecnico ovviamente, perché il programma è amato da tutti ed è molto popolare, ma rompiamo le palle ai partecipanti e li stimo per questo. Io lavoro in laboratorio ed il laboratorio è la cosa più importante per me ma loro lavorano in condizioni peggiori, con 8 telecamere in faccia, il caldo, le luci e la pressione che gli mettiamo noi addosso”. Due facce della stessa medaglia, in tv come sul palco quelle della D’Onofrio e di Knam.
I due lasciano il posto ad un’altra personalità sorprendente e sulla cresta dell’onda, quella di Corrado Assenza che ha portato il suo Caffè Sicilia nel mondo grazie a Chef’s Table e Netflix ed ora il mondo sta andando a Noto e al suo Caffè Sicilia per le stesse ragioni.
L’umanità e la passione, l’attenzione e lo studio di questo pasticcere siciliano hanno conquistato il pubblico facendo addirittura candidare la sua puntata agli Emmy Awards di quest’anno e dal palco, il nostro Assenza, ha spiegato il modus operandi della troupe di Netfix: “Un milione di euro a puntata di budget, Una troupe grossa ma giovane, hanno inventato un programma fantastico ed ora, un aumento seppur minimo del Pil di Noto, lo dobbiamo a questa comunicazione”.
Sulla comunicazione ci ha investito anche il ristorante Bros, che a Identità Golose ha portato la sua head chef, Isabela Potì. La giovanissima salentina, nata come pasticciera, ha impattato fortissimo sul panorama gastronomico italiano unendo grande tecnica, grande staff, un’idea di ristorazione innovativa (Bros è il primo stellato salentino dopo 60 anni) ed una certa avvenenza.
La Potì è la massima espressione della cucina della sua regione e grazie ad uno staff di millennials sta rendendo l’alta ristorazione ed il ristorante Bros, una comunità: Be Bros, come dicono loro.
Nel pomeriggio, come di consueto, gli aspetti di Identità Golose sono stati molto più tecnici, tra panel e rappresentazioni, con alcuni degli chef più importanti del mondo. Il primo giorno è andato e se l’appetito vien mangiando…
St. Patrick’s Day, una festa “santificata nei bar” e festeggiata col cibo
La globalizzazione ha regalato anche all’Italia il St. Patrick’s Day e per molti, come ci ricordava Jim Belushi, “è la mia festa preferita… perché è una festa religiosa che si santifica nei bar”.
Andiamo per gradi: è festa nazionale in Irlanda, essendo Patrick il santo patrono della nazione ma la fama arrivata fino al Bel Paese di questa festa è dovuta principalmente all’emigrazione degli irlandesi in America, in particolare nelle città di New York e Chicago, ancor più in particolare verso Boston dove addirittura la squadra NBA può essere confusa per irlandese, i Boston Celtics.
La festa è antichissima, ha circa mille anni ed è pregna di episodi sanguinari e violenti soprattutto nel ‘900, secolo in cui la festa fu ufficializzata e calendarizzata un po’ in tutto il mondo.
Come ogni festa antica e popolana che si rispetti, anche il Saint Patrick’s Day ha una ricca storia gastronomica: i piatti tipici sono essenzialmente due, il Roast Dinner e il Crisp Sandwich.
Il primo consiste in carne di manzo bollita, patate arrostite, piselli e carote bollite e servito con il soda bread, un pane che viene fatto lievitare tramite il bicarbonato di sodio. Il secondo è invece una specie di crostone, con le patate croccanti al centro.
Una giornata da vero irlandese il giorno di San Patrizio dovrebbe sempre cominciare con una colazione da vero irlandese nel giorno di San Patrizio, quindi con pancetta, salsicce e uova, oltre a Fadge (pane di patate irlandese) o alla famosa Boxty (torta alla piastra).
A pranzo, gli americani in particolare, si concedono un’insalata di carne in scatola e cavoletti (?!) ma, per tenere a bada i livelli di alcol, è consigliabile una Dublino Coddle, una specie di pasta al forno, a strati che contiene pancetta, salsiccia di maiale, e patate.
Per finire c’è il Barmback, il dolce tipico dell’Irlanda, fatto di mele e spesso glassato al Bayles, perché il giorno di San Patrizio, come ricordava Jim Belushi, va festeggiato nel bar.
Nessuno ha dimenticato l’alcol e tralasciando volentieri il sidro di mele perché in Italia non è molto amato ma c’è la Guinness.
La Guinness nel giorno di San Patrizio, mediamente, vende il 50% in più rispetto al solito, con una curvatura che comincia ad impennarsi già 7 giorni prima dell’evento tanto atteso. Happy St. Patrick’s Day, perché potreste incontrare la vostra futura moglie, ma forse non le piacereste così tanto, non piacete nemmeno a voi stessi…
Fiducia al pomodoro e basilico: non semplicemente pasta
Ho scoperto che nell’invenzione più ordinaria risiede un universo intero, pensavo per l’appunto ad un abbondante piatto di pasta al pomodoro e basilico fresco. Il profumo è intenso, colorato, la piacevolezza è familiare, dolce, un po’ acidula, saporita e buona così.
In un piatto apparentemente così semplice si ritrovano le aspirazioni di ognuno di noi, il desiderio di rispondere al bisogno di convivialità e sicurezza, allo stesso tempo diviene strumento per allontanare le pressanti dinamiche del vivere quotidiano, riscoprendo nella salsa l’emozione come espressione del valore patrimoniale della nostra cultura.
Assaporare ed appassionarsi di un piatto dai pochi ingredienti avvicina a sapori contemporaneamente complessi in cui la qualità dei suoi elementi è la prima vera conditio sine qua non del gusto rosso acceso del pomodoro.
Piace proprio a tutti ma si nasconde negli spazi privati, nell’intimo delle case o tra le righe dei menù più caserecci. E’ un piatto autentico e misurato, fortemente creativo ed indisciplinato e che siano spaghetti, maccheroni, pennette non importa. Ciò che conta è che abbia il sapore dolce e aromatico della fiducia (e del basilico).
Degli stessi colori e della stessa pasta è il valore semantico della fuga che accomuna la pasta al pomodoro, questo piatto così sobrio e resiliente ai fragili personaggi del film del 2010 Les Émotifs Anonymes per la regia di Jean-Pierre Améris. La fuga dalla fiducia in sé stessi, la paura di non riuscire ad emergere abbastanza o la paura proprio di farlo e sentirsi al centro dell’attenzione nell’incapacità di essere all’altezza delle aspettative degli altri.
Mi piace pensare che la scelta di far indossare i colori verde e rosso alla protagonista dall’incarnato chiaro e dai capelli biondi, Angélique Delange, non sia casuale. Un po’ come la salsa di pomodoro ed il cioccolato della commedia francese che si rendono un fil rouge che unisce l’antica origine azteca di entrambi con l’ancora più antica emotività degli uomini.
Guinness Storehouse, comincia la festa di San Patrizio
La Guinness Storehouse di Dublino, una delle mete turistiche principali della capitale irlandese, si veste a festa aspettando il San Patrizio del 17 marzo. La fabbrica della stout più venduta al mondo prepara un calendario fitto di eventi, che partono il 14 marzo con l’accensione delle luci verdi sulla facciata dello Store e si concluderanno il 17 con la tipica parata, tra carri allegorici, folletti ed un mare di verdi trifogli.
In questa settimana sulla terrazza panoramica si potranno degustare diverse varianti della Guinness per la festa di San Patrizio e potranno assaporare un menù speciale preparato appositamente da Sean Hunter e Ian Colgan, lo chef ed il beer sommelier della struttura.
Per immergersi nella cultura dell’Eire non basta il cibo che va provato per “devozione” però, ma la Storehouse ha pensato anche a questo ed al secondo piano, presso la Arrol Suite, ci saranno performance live ed intrattenimento fino alla conclusione dei festeggiamenti con un lunghissimo dj-set che accompagnerà i visitatori per tutta la notte.
L’ingresso alla struttura inoltre, sarà gratuito a tutti i Patrizio e Patrizia del mondo, insieme alle varianti e derivate del nome ma il marchio nato nel 1769 ha pensato anche a chi non potrà raggiungere Dublino ma vuole comunque sentirsi parte della famiglia gaelica ed ha chiesto a Sean Hunter di regalare la sua ricetta speciale per il tipico toasted sandwich irlandese, insieme alla birra da abbinare, cosicché possiate organizzare un vero e proprio St-Patrick party per vivere anche a casa lo spirito della festa irlandese.
Reuben Sandwich – La ricetta dello chef Sean Hunter della Guinness Storehouse

Per la preparazione del ripieno, brasare lentamente la carne di maiale con anice stellato, il preparato Five Spice (un mix di cinque spezie tipico della cucina cinese e taiwanese, composto da anice stellato, chiodi di garofano, cannella, pepe Sichuan e semi di finocchio), aglio e tuberi (patate, carote, sedano).
Farla poi raffreddare e affettarla.
Spalmare sul pane tostato il Ranch Dressing, una salsa preparata con sale, maionese, panna acida, prezzemolo, aneto ed erba cipollina tritati, salsa Worcester, pepe bianco, peperoncino, zucchero extrafine, aceto di vino rosso, aglio in polvere, latticello.
Farcire con la carne e aggiungere cavolo sottaceto, fette di cetriolo e formaggio cheddar alla Guinness.
È consigliato l’abbinamento con Guinness Draught.
Marino Niola: “Più che sulla bilancia il cibo pesa sulla coscienza”
Vegetariani, vegani, crudisti, sushisti, nogluten, carnivori, tutto fuorché onnivori. Sono solo alcune delle varie “diete” che escludono uno o più categorie di alimenti, ormai la vita delle persone la si può classificare in tribù alimentari. Lo dimostrano le costanti privazioni a cui si sottopongono i cittadini globali da millenni.
L’antropologo Marino Niola spiega nel suo libro “Homo Dieteticus” di come la nostra sia diventata un’ alimentazione in levare: senza uova, senza sale, senza zucchero, senza latte diventata ormai piena di divieti,una sorta di esorcismo dietetico che espelle dalla tabella alimentare i cibi, proprio come se fossero il diavolo, l’opposta di quella dei nostri genitori, una nutrizione basata sull’addizione.
La maggior parte di noi,oggi giorno, è alla costante ricerca dell’alimento ideale, capace di metterci in pace con noi stessi, finendo consapevolmente di eliminare tutti gli elementi, individuati come pericolosi, riducendo la dieta a pochissimi nutrienti ritenuti, spesso con grave danno per la salute .Testimonial anche le icone dello star system, che conducono così i cittadini a pensare che in una società come la nostra il nemico non è più la fame, ma l’abbondanza.
Una tra le tante ossessioni alimentari è l’ortoressia caratterizzata dalla fobia di cibi che riteniamo non sani o contaminati, e che può causare squilibri nutrizionali e conseguenze nella socialità, nonché nella sfera privata e sessuale di chi ne soffre. Gli ortoressi, fanatici dell’appetito corretto, sono ossessionati dalla nocività di ciò che mangiano, temono che il cibo nasconde pericoli mortali , si isolano al momento del pasto, rifiutano ogni invito a pranzo per paura di dover ingerire cibi pericolosi, ma soprattutto la loro autostima cresce se resistono alle tentazioni gastronomiche. Questi sono i principali sintomi della patologia che ormai ha una diffusione epidemica, secondo la stima dal ministro della salute su 3 milioni, il 15% soffre di questo disturbo alimentare.
L’anoressia è parente stretto dell’ortoressia, la fissazione del mangiare sano che a furia di eliminare alimenti, riduce la dieta a pochissimi nutrienti con grave danno per la salute, a punto tale da trasformare la tavola nel teatro di una battaglia tra il bene e il male, mascherati da salute e malattia , poiché controllando ciò che si mettono in corpo hanno insieme l’illusione di controllare anche il resto.
È quel che facciamo nel nostro piccolo un po’ tutti. Mettendoci in pace con la bilancia automaticamente crediamo di metterci in pace con la nostra coscienza, così per aver un corpo perfettamente sano finiamo per far ammalare la vita. Ma fino a che punto varrà la pena spingersi alle rinunce?Quando una giusta intenzione si trasforma in un’ossessione che finirà per ammalarci ?
Il viaggio del vino: dal monte Ararat alla Cina
Il vino non si beve soltanto, si annusa, si osserva, si gusta, si sorseggia e… se ne parla. (Edoardo VII 1841 – 1910)
Al Vino
Nobile vino, nettare degli Dei, le tue origini risalgono a un tempo indefinito,
a quando ti generò tua madre, la “vitisvinifera”: forse, tra i monti del Caucaso,
un “homo sapiens”, in un giorno fortunato, segnato dal destino e non dal caso,
riuscì a trasformarti da frutto comune in un magico liquido, dolce come candìdo.
Sei stato la prima creatura dell’umana sapienza, sei nato prima della scrittura,
prima della musica e della poesia. Tu non conosci confini, tienilo a mente,
hai accompagnato tutte le grandi civiltà, cantato e decantato, tutta la cultura
in ogni tempo, in ogni luogo e lingua[…] Sandro Boccia
La vite è considerata una delle più antiche piante della terra, si ipotizza che la sua origine risalga a più di 2 milioni di anni fa.
Le prime testimonianze scritte sulla vite si trovano nella Bibbia.
Nel libro della Genesi Dio ordinò a Noè di costruire un’arca per sfuggire al “diluvio universale” e far sopravvivere la specie umana e gli animali.
Quando il diluvio finì l’arca si posò sul monte Ararat, Noè uscito dall’arca piantò una vigna e si ubriacò.
“Ora Noè,coltivatore della terra,cominciò a piantare una vigna. Avendo bevuto il vino,si ubriacò e giacque scoperto all’interno della sua tenda.”(Gn9,20-21)
E’ interessante notare che Noè piantò la vigna e non i semi dell’uva, e questo fa supporre che la coltivazione della vite risalisse a prima del diluvio.
La maggior parte degli studiosi ritiene che lo sviluppo della vitivinicoltura si sia avuto nelle regioni del Caucaso, dove a partire da 8000 anni fa circa si verificò la selezione della vite passando da vitis silvestris a vitis vinifera. Ciò è dimostrato da chiare documentazioni in bassorilievi, pitture funerarie, tavolette che descrivono le tecniche di coltivazione della vite e della produzione del vino. Si racconta che la nascita del vino sia stata del tutto casuale, alcune popolazioni asiatiche conservavano il succo d’uva in otri di pelle di capra o di cammello, a causa delle elevate temperature il succo fermentò e si trasformò in una sostanza piacevole che veniva miscelata con miele, erbe aromatiche o assenzio per migliorarne il sapore. Dal Caucaso la vite si diffuse verso la Mesopotamia, l’ Egitto, la Fenicia, la Siria, il Libano, la Palestina e la Grecia. In Mesopotamia come in Egitto,il vino era riservato a sacerdoti, re, governanti e uomini che facevano parte dell’elite del potere.
Gli Egizi conservavano il vino in giare sigillate con attaccato un cartellino per indicare provenienza e annata. Da alcune pitture tombali di Tebe apprendiamo le loro procedure di vinificazione. Sappiamo che la vite era coltivata a pergolato e che la fermentazione avveniva nelle anfore che venivano sigillate.In Palestina, Siria e Libano la vite venne introdotta molto probabilmente nel 3000 a.C. Tra loro soprattutto gli israeliti avevano la propensione alla coltivazione della vigna seguendo le indicazioni dell’Antico Testamento in cui la vigna simboleggia Israele.“La vigna è la casa di Israele” (Is 5,7). Prima per gli ebrei ed in seguito per i cristiani il vino e la vigna diventano simboli importanti.
Se per gli ebrei la vigna rappresenta Israele per i cristiani rappresenta Gesù e i suoi tralci rappresentano i suoi seguaci.”Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo.Ogni tralcio che in me non porta frutto,lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perchè porti più frutto” (Gv15,1-2). Nell’Eucaristia il vino diventa il sangue di Gesù. Esso assume un ruolo importante anche nei suoi miracoli. Il primo miracolo della sua vita pubblica è quello delle nozze di Cana in cui trasforma l’acqua in vino.
Per la diffusione in Grecia invece dobbiamo aspettare ancora qualche anno.Qui infatti la vite viene introdotta dai micenei nel 1500 a.C. circa ma la diffusione vera e propria avviene molti secoli dopo. Nell’Odissea di Omero ci sono molti riferimenti al vino.“Allora Ulisse ingannò il Ciclope con un singolare artificio: fece bere a Polifemo il vino e durante il sonno bruciò con un tronco ardente l’unico occhio del turpe mostro”. Ma troviamo riferimenti anche nell’Iliade, sullo scudo di Achille sono rappresentati una vendemmia e un grappolo d’uva.Avvenimento importante per la propagazione della viticoltura in Grecia è sicuramente la diffusione del mito di Dioniso. A lui era dedicata la festa di primavera e quella d’autunno.Lo scopo del rito era quello di ricordare le vicende di Dioniso, figlio di una relazione adulterina tra Zeus e una mortale e per questo perseguitato fino alla pazzia da Era, consorte legittima di Zeus. Il corteo era composto dalle menadi, donne incoronate con frasche di alloro e indossanti pelli di animali selvatici, e da uomini camuffati da satiri. Ebbro di vino, il corteo si abbandonava alla suggestione musicale del ditirambo, una danza ritmica ossessiva scandita da flauti e da tamburi. Lo scopo del rito era quello di raggiungere quello speciale stato di possessione che gli antichi chiamavano entusiasmo: il rito si chiudeva con la caccia e lo sbranamento di un animale selvatico.
A partire dall’ VIII secolo a.C. la fondazione di nuove colonie nel sud Italia da parte della Grecia portò allo sviluppo della viticoltura anche in Italia, chiamata allora Enotria. Ma oltre che dai greci questa fu introdotta anche dagli etruschi nell’Italia centrale,l’attuale Toscana.L’importanza della viticoltura in Italia è testimoniata da numerosi trattati sull’agricoltura. Il primo trattato sulla viticoltura è De Agri Cultura di Catone. Virgilio nelle Georgiche parla dello sviluppo della vite in funzione del terreno.Plinio il vecchio con la Naturalis Historia tratta delle diverse viti,la natura del suolo ed il ruolo del clima. Varrone con il De Re Rustica si occupa degli aspetti gestionali dei vitigni.Nel De Re Rustica di Columella invece troviamo indicazioni sui terreni adatti ai vitigni,le talee per la riproduzione,la potatura,ecc. Oltre che nella letteratura, presso i romani l’importanza della vite la possiamo notare anche nell’arte. Ai romani si deve la più grande diffusione della viticoltura nel mondo allora conosciuto. La sua diffusione va di pari passo con le conquiste dell’impero romano.Per una questione di costi il vino veniva trasportato via acqua, per questo motivo le coltivazioni si trovavano vicino al mare o a fiumi.Le principali città dell’impero tra cui Roma, Ostia e Pompei avevano molte “tabernae”, lì si poteva trovare vino di alta qualità, fatto invecchiare per anni e acquistato dai ceti più ricchi, e vino di scarsa qualità, il vinello. Il vino era tassato in tutto l’impero.
Se i romani e il Cristianesimo avevano contribuito alla diffusione del vino e della viticoltura,la caduta dell’impero romano e le conquiste arabe lo frenarono drasticamente dal momento che l’Islam vieta il consumo di vino.In questo periodo l’espansione dei monasteri in tutta Europa fa sì che la coltivazione delle viti sopravviva, grazie ai monaci favorevoli a tale coltura.
Dopo la scoperta dell’America comincia la diffusione della viticoltura anche nel resto del mondo. Gli spagnoli la portarono prima in Messico, poi in Perù, Bolivia, Colombia e Cile .In Argentina fu diffusa da un gesuita mentre in Florida dai francesi.A metà del ‘600 gli olandesi la portarono in Sud Africa. A fine ‘700 invece gli inglesi piantarono un vigneto nella prima colonia penale che fondarono in Australia.Come a Roma, anche nel resto del mondo, ad occuparsi dei vigneti erano gli schiavi.
Per concludere ritengo importante parlare anche della Cina. A differenza di ciò che pensiamo,la diffusione della viticoltura non è avvenuta negli ultimi anni ma ha radici molto antiche.L’introduzione della vitis vinifera in Cina risale al IV secolo a.C. Nel libro “Series of Western regions’ exploration” di Marc Aurel Stein si racconta che nell’antica città di Niya furono ritrovati i resti in buono stato di un vigneto all’esterno di un cortile residenziale..A quel tempo la coltivazione di uva e la produzione di vino erano effettuate principalmente nelle regioni occidentali della Cina. Nel 138 a.C., l’inviato speciale della dinastia Han occidentale Zhang Qian visitò le regioni occidentali e vide che attorno alla località di Dayuan, la gente beve un tipo di vino prodotto con uva; i ricchi conservano più di dieci milioni di litri e questi si mantengo per più di dieci anni. Zhang Qian portò il vino e la tecnologia viticola dalle regioni occidentali alle Pianure Centrali. Si ritiene che la Cina iniziò la sua l’industria del vino in epoca Han (140 a.C.-88 a.C.). Oggi è un settore in continua crescita nonostante al momento i vini prodotti non sono di alta qualità.