Vi siete mai chiesti perché, con i nostri mari ricchi della migliore varietà di pesce, abbiamo iniziato a consumare baccalà e stoccafisso provenienti dal Nord Europa?
Storia del baccalà
Sembra che la diffusione del merluzzo secco o salato sia opera di un certo OlaoMagno, padre conciliare di origini svedesi che visse negli anni del ConciliodiTrento. In questo periodo, la Chiesa Cattolica con tutto il suo clero fu spinta a rispettare il precetto del cosiddetto “mangiar magro”, ovvero dell’accettare la povertà anche a tavola. Ebbene, a padre Magno (nomen omen!) fu assegnato il compito di redigere un libricino in cui elencare i cibi ammessi durante i periodi di digiuno. Indovinate un po’? Il suo scritto – furbo lui – non faceva altro che decantare gli alimenti tipici della Svezia, in particolare un certo tipo di merluzzo “essiccato ai venti freddi” prodotto da un’antica famiglia svedese che faceva affari nel settore ittico. La sua famiglia, insomma!
Diffusione del baccalà in Italia
Ad ogni modo, il caro Olao Magno con la sua pubblicazione destò non poca curiosità nel popolo del sud Europa, che vide nel merluzzo un piatto perfetto per i venerdì di Quaresima.
Iniziarono così lunghi viaggi per portare questo pesce in tutta Italia, ed è da allora che non si é più riusciti a fare a meno di quegli straordinari cibi che sono lo stoccafisso ed il baccalà!
Perché dovresti scegliere di mangiare solo cibi di stagione? Per questa domanda c’è più di una risposta esatta. Vediamone quattro qui di seguito:
1. Non richiedono grandi quantità di additivi
Un’alimentazione che tiene conto della stagionalitàdei prodotti è prima di tutto un’alimentazione più sana. Infatti, le coltivazioni che seguono i tempi della natura hanno generalmente bisogno di molti meno concimi, pesticidi e conservanti rispetto a quelle che avvengono in periodi dell’anno meno adatti. Nemmeno il lavaggio accurato di frutti e ortaggi può eliminare del tutto queste sostanze, che possono costituire una grave minaccia per la salute umana.
2. Sono più gustosi e profumati
Maturando secondo i propri tempi e sotto la luce del sole, gli alimenti di stagione hanno indubbiamente maggiori proprietà nutritive, oltre a gusto e profumo più intensi. Se qualche volta ti è capitato di mangiare una fragola a novembre o un pomodoro sorrentino a Natale (quelli che sanno “di frigorifero”, per intenderci) allora sai di cosa sto parlando. Pertanto, acquistare di stagione serve anche a godere appieno dei piaceri del palato e ad aiutare l’organismo con la maggiore quantità di vitamine e minerali presenti nei cibi.
3. Sono più sostenibili per l’ambiente (e per il portafogli)
Prediligere una dieta su base stagionale fa bene anche alla natura. La scelta di rispettare le stagioni è ecologica su più livelli: basti pensare che per avere melanzane, zucchine e peperoni sulle tavole invernali sono richiesti più trasporti, più energia, più pesticidi e, ovviamente, anche più soldi. Infatti, gli alimenti prodotti nelle serre riscaldate arrivano nel frigorifero di casa solo dopo aver inquinato il terreno per il gran numero di residui chimici, dopo aver percorso chilometri e chilometri stivati chissà come (magari subendo movimenti bruschi e continui sbalzi di temperatura), dopo esser stati parcheggiati per non si sa quanto tempo nelle celle e poi, non meno importante, dopo averti fatto spendere anche il doppio rispetto ad un acquisto fatto nella giusta stagione.
4. Scandiscono il calendario della dieta della salute
Sarà un caso che le arance maturano quando c’è il picco di influenza e raffreddore? Che la frutta e la verdura estiva (come fragole, albicocche, angurie, peperoni, melanzane, pomodori, ecc.) è ricca di vitamine, come la A, che ci proteggono dai raggi del sole? O che le verdure a foglia larga tipiche della stagione invernale (come carciofi, cavoli, lattuga) sono molto ricche di quegli antiossidanti in grado di contrastare i pesanti piatti a base di carne che vengono cucinati con l’arrivo del freddo? No. Non è affatto un caso. Ogni mese dell’anno offre la gamma di prodotti giusti per stare bene.
È chiaro, quindi, che non c’è neanche un solo motivo valido per mangiare cibi che non siano di stagione. Il consumatore che sceglie di rispettare il ciclo della natura, infatti, mette insieme una maggiore salute, un miglior sapore e una spesa di gran lunga minore.
I cibi di stagione di Maggio
Questo è il mese primaverile per eccellenza, con il sole più sano e le giornate ancora non molto calde. Ecco alcuni dei classici alimenti della dieta mediterraneada comprare a maggio :
Quello del gluten-free è senza dubbio un universo in espansione. Dalla pasta, alla pizza, agli snack fino ai prodotti per la prima colazione, la sperimentazione nell’ambito dell’alimentare per celiaci sta rendendo la vita di milioni di persone in tutto il mondo indiscutibilmente più facile. In effetti, fino a pochi anni fa, gli allergici a cereali come frumento, segale, avena, orzo e farro avevano davvero poche possibilità di godersi un pasto in cui le esigenze salutistiche potessero andare a braccetto con il piacere del palato. Oggi, per fortuna, le cose sono cambiate in meglio, con reparti del supermercato totalmente dedicati ed una gamma di prodotti sempre più ampia.
Tra l’altro, per sensibilizzare ancor di più la popolazione su un argomento come quello della celiachia che, come sanno coloro che ne sono affetti, è delicato, complesso e non va per niente sottovalutato, sono sempre in numero maggiore gli eventi sul Food che si stanno aprendo alla tematica dell’allergia al glutine. Difatti, importanti manifestazioni di richiamo anche internazionale stanno ampliando il ventaglio della propria proposta di intrattenimento a favore della minoranza di popolazione celiaca. Tra gli appuntamenti di maggior interesse, quelli dedicati all’universo della pizza sono di certo i più ricchi in iniziative per celiaci, i quali possono finalmente avere il piacere di assaporare una bella Margherita senza correre alcun pericolo.
Basti pensare all’appuntamento annuale del Napoli Pizza Village, l’evento gastronomico campano con numeri da record che per il 2019 andrà in scena dal 13 al 22 settembre. Sul lungomare Caracciolo lo stand dedicato alla celiachia non manca mai, ed i pizzaioli si sfidano puntualmente a colpi di panetti gluten-free. Non va poi dimenticato l’International Pizza Festival 2019 che si è tenuto a Milano dal 3 al 5 maggio. In questa occasione uno dei venti forni è stato riservato in modo esclusivo alla cottura degli impasti senza glutine, preparati tra l’altro dal noto pizzaiolo campano Salvatore Lionello, vincitore del Titolo Mondiale di “Migliore Pizza Gluten-Free”. Lo stesso accade per La Città della Pizza a Roma, dove tra le pizze al taglio e quelle fritte trovano il loro posto anche quelle per gli allergici. Tra i protagonisti dell’edizione 2019 Diego Vitagliano, uno dei pizzaioli più in gamba del panorama napoletano, e Sara Palmieri, prima pizzaiola donna dell’Irpinia.
Tuttavia, resta il fatto che orientarsi in un mondo che ha fatto del “senza glutine” un trend del momento seguito anche da chi non soffre di celiachia – che è a tutti gli effetti una malattia cronica, permanente ed incurabile – potrebbe risultare non poco problematico. Il rischio di banalizzare gli effetti della patologia sono tanti, ad esempio confondendola con la cosiddetta “gluten sensitivity”. Si tratta della sensibilità al glutine, un disturbo i cui sintomi sembrerebbero spaziare dal colon irritabile, al gonfiore, alla nausea fino alla diarrea e alla stipsi. Non esiste tuttavia alcuno studio clinico che finora abbia accertato la relazione tra la proteina e i disagi sovracitati.
Ma ritornando alla pizza…qual è la ricetta migliore per fare la pizza senza glutine a casa? Qui ve ne proponiamo una di Antonino Esposito, riadattata ovviamente per cottura in forno casalingo. Da provare!
Pizza senza glutine (per 4 persone)
Acqua 300 cl
Farina di riso 500/600 gr
Farina di soia 25 gr
Lievito di birra 5 gr
Sale 25 gr
Strutto 1 cucchiaio
Olio EVO 1 cucchiaio
Mischiate le due farina e il sale. Versate l’acqua in una ciotola (se la usate, nell’impastatrice), scioglietevi il lievito e aggiungetevi le due farine con il sale in maniera costante, poco per volta. Aggiungete lo strutto e fatelo assorbire. Sbattete l’impasto in modo da farlo ossigenare e aggiungetevi la restante farina. Alla fine aggiungete l’olio. Lavorate ancora l’impasto sul tavolo. Poi formate una palla e posizionatela nella ciotola. Sigillate la ciotola con della pellicola e fatela riposare in frigo per un quarto d’ora. Poi procedete a fare i panetti, copriteli e lasciateli a lievitare per alcune ore. Dopo la lievitazione, non avendo glutine, l’impasto probabilmente presenterà una superficie non liscia, ma bocciardata. Stendetelo con cura sul piano infarinato, aggiungetevi polpa di pomodoro, fior di latte ed olio Evo e cuocete in forno a 220°C.
Le aspirazioni non possono che essere “esplosive” per chi fa di un territorio vulcanico la propria cifra identitaria. Lo ha dimostrato lo chef-patron di “Taverna Vesuviana”, AlfonsoCrisci, il quale ha recentemente deciso di partire alla volta di Nola con gli obiettivi di innalzare gli standard di accoglienza e di ampliare le prospettive di crescita. La città dei gigli è stata infatti scelta per coniugare la necessità di una realtà urbana con maggiore ricambio nell’utenza al bisogno di rifornirsi in maniera diretta dalla fertile agricoltura del Vesuvio. Dal pomodoro del piennolo all’albicocca pellecchiella, passando per le nocciole, i vitigni e le tante verdure tipiche, l’area che si estende ai piedi del vulcano campano ha nei fatti un valore inestimabile per chiunque ricerchi nella propria cucina pienezza dei sapori, alti valori nutrizionali ma anche e soprattutto identità di un luogo storicamente di grande interesse.
«Per il tipo di ristorazione a cui sono abituato, quella fatta di freschezza degli ingredienti e stagionalità delle proposte in carta, il contatto in prima persona con la campagna, i contadini, i prodotti della terra è fondamentale. Una città come Nola lo permette, con la sua vicinanza all’area agricola del parco vesuviano – espone con enfasi Alfonso Crisci, il quale sembra non poter proprio fare a meno di scegliersi le materie prime da sé. Basti pensare che sono ben tre le volte a settimana in cui, a fine serata, si reca personalmente al mercato ittico di Volla in compagnia dei membri della brigata. «Dopo il servizio, io e i ragazzi mangiamo un panino a Pomigliano, e poi intorno alle 2 tutti al mercato del pesce. Ormai è diventato un vero e proprio rito, e lo viviamo con entusiasmo, come una specie di gioco. È molto divertente, c’è perfino gente che chiede di accodarsi ogni qual volta ci andiamo».
In effetti, tralasciando la severità, l’ordine e la disciplina richiesti dal suo ruolo, ciò che realmente contraddistingue Alfonso è la genuinità d’animo, l’umanità e l’indole ludica. A differenza di tanti colleghi, ad esempio, lui non ama definirsi chef: «Quello è un termine francese. Io sono un cuoco». E di quelli che si atteggiano a star dandosi delle arie pensa semplicemente che non sappiano cosa sia la gavetta. Nel parlare della sua quotidianità, rivela che nel poco tempo libero ama starsene a guardare i cartoni alla tv insieme ai suoi figli, Lucia di 8 anni e Giuseppe di 4. Ed è talmente affezionato ai due piccoli da avergli dedicato i nomi dei menù degustazione: Lulù quello da 6 portate, Josè quello da 8 (pare addirittura che i bambini al rincasare del papà chiedano curiosi «Chi di noi ha vinto stasera?»). Tra l’altro, in un’era di comunicazionedigital e social, lui è uno dei pochissimi che ancora confida nel potere del passaparola. Decisamente il medium più umano che ci sia.
La voluta distanza dal mondo mediatico non sta però a significare arretratezza o inadeguatezza. Anzi. La modernità del format di “Taverna Vesuviana” la si nota in primo luogo dall’approccio alternativo alla tradizione gastronomica campana, con cui Alfonso affronta anche le ricette più antiche del repertorio al fine di riproporle in modo più gustoso e salutare. Le tecniche innovative abbondano: si parte dall’oliocottura, con cui riesce a cuocere un gambero sotto i 50°C preservandone il gusto e gli aspetti nutrizionali, fino ad arrivare all’uso di azoto liquido per congelare la mozzarella di bufala da grattugiare a mo’ di parmigiano sulle paste.
Come se non bastasse, ad arricchire l’atmosfera di freschezza del locale c’è anche la sala con tutto il suo giovane staff: il bartender Pasquale Carotenuto, che dà il benvenuto agli ospiti del ristorante offrendo loro cocktail a base di estratti freschi di frutte e verdure di stagione; il preparato direttore di sala Gianluigi Ercole, il quale non manca mai di spiegare dettagliatamente i piatti, elencandone gli ingredienti e chiarendone la tecnica di esecuzione; la sommelier Carmela Simonetti (nonché moglie di Alfonso), che aiuta nella scelta del vino più adatto, potendo contare su una carta delle bevande ricca e molto curata. Insomma, tutto qui fa presagire che l’obiettivo “stella” sia davvero molto, molto vicino.
Flusso di pensieri tra coscienza e in-coscienza: esperimento di Cinegustologia su base musicale. La Marinara di Starita
È uno di quei giorni che ti ritrovi a camminare, per chilometri. Non puoi fermarti, sei solo, accompagnato da un fascio di pensieri convulsi. Puoi solo camminare e sperare di sfibrare i grumi nella mente, diluirli come cioccolato denso a bagnomaria.
È tardi, sei stanco, hai voglia di sederti e mettere qualcosa tra i denti. Cerchi una casa, trovi conforto da Starita. Niente fila, bene. Vai per birra e Marinara Starita. Che poi la marinara non è mai stata tra le tue prime scelte. Servito presto, tagli la pizza a metà, poi in 8 pezzi: ora hai fame, vuoi godertela con calma.
Afferri con due dita il primo trancio e… stai da Starita: il pezzo non muore afflosciandosi sotto il suo peso. Bam, il boccone scoppia in bocca. Qua non scarti, come per le altre marinare, la presenza grossolana di aglio o il tappeto di origano. No, fai esplodere il tutto, cornicione croccante compreso. Ma come è possibile che questa pizza sia più buona e potente della Margherita?
Passi al secondo pezzo. Non fai in tempo ad avvertire la callosità del datterino che parte un altro Bang: la musica di Taxi Driver incomincia a scorrere nella mente, ti capita a volte. Mastichi e il sorriso di De Niro si confonde con l’immagine di un viale. Quello della vecchia casa. È sera, scendi per la strada tortuosa e fischi, a coprire i pensieri, la musica di Herrmann.
Uno sguardo sul viale
Ma che succede? Ti ricomponi guardandoti intorno e… sorridi, dando ragione a chi pensa che la testa sia una sfoglia di cipolla. Sorseggi la birra, fai spazio ad un altro pezzo di pizza, ma… la musica è partita: ora è il salato del pecorino a commuovere, a prenderti a tradimento portandoti lontano. È lei che vedi oltre la ruggine del tempo, mentre risale un motivo di Daniele in Ricomincio da tre.
Ruggine
La commozione di questa pizza è al suo apice. Il sapido del pecorino danza tra dolci rondelle di pomodorino e il pungente dell’aglio ha ormai il tono malinconico di un tango argentino. La musica di Piersanti accompagna il ricordo di quell’angolo sul mare.
Spicchio di mare
Le lacrime, il salato dei sapori, strappano un ghigno di piacere. È tutto così assurdo, eppure maledettamente breve. Come la pizza.
“Il cibo è uno spartito musicale e in sala c’è la chiave di lettura”.
Napoli, Università Suor Orsola Benincasa. Licia Granello, giornalista de La Repubblica, presenta Livia Iaccarino, sommelier e cuore del celebre ristorante Don Alfonso 1890 a Sant’Agata sui due Golfi.
Andiamo a conoscere alcuni frammenti di questa famiglia, una storia tra passione per la cucina e amore del Sud.
I colori del cibo
Alfonso e Livia si sono innamorati ragazzini. Abbiamo Livia, dodicenne stilosa ed elegante, cresciuta tra tessuti e vestiti bellissimi.
Ed ecco Alfonso, di un paio d’anni più grande, un talento per la pittura e per i colori, ma con una mamma molto severa: non lo lasciava dipingere, perché diceva che si sporcava e la cosa non andava bene. Alfonso aveva così trasferito questa passione nel cibo, nei colori del cibo.
I due aspettavano che la mamma di Alfonso si addormentasse, rubavano la chiave e andavano di nascosto a fare esperimenti in cucina. Poi, ovviamente, dovevano rimettere tutto a posto.
Per la verità, ricorda Livia, “Alfonso si esibiva e io dovevo ricordare i posti degli attrezzi e pulire perché altrimenti saremmo stati ripresi in malo modo il giorno dopo”.
Livia Iaccarino e Licia Granello
La damigiana di vino
Inseparabili e scaltri, non sempre riuscivano a farla franca. Una famosa sera provarono a fare il vino, pestarono l’uva, la misero in una damigiana che “diligentemente” tapparono per non farci entrare la polvere…
Da lì a pochi giorni successe quel che non doveva succedere. La damigiana scoppiò, e frammenti di vetro con mosto zuccherino si sparsero su abiti, pareti, cibo, dappertutto.
Fu il finimondo e terribile fu la punizione: questi ragazzini andavano separati, la loro complicità interrotta.
Alfonso fu mandato in collegio a Napoli. Livia finì rinchiusa dalle suore: sei mesi di controllo asfissiante di gonne, biglietti, tutto.
Risultato? La coppia, tra ribellione e scorribande, arriva al matrimonio.
Un matrimonio contrastato
“I due si fidanzano – è Licia Granello ora a ricostruire – e si sposano, con la firma dei genitori, perché Livia era minorenne, una firma che tardava ad arrivare per le perplessità dei genitori: ad ottobre sono 50 anni di matrimonio…”.
Il regalo di nozze? Fare gli albergatori. Alfonso ha il nome del nonno, una famiglia di albergatori storici, e quindi era scontato che dovessero portare avanti l’attività di famiglia.
Una scelta da pazzi
In realtà, tra lo scettiscismo dei genitori che contavano unicamente sull’attività di albergatori, il 21 luglio del 1973 i giovani sposi decidono di aprire un ristorante e di chiamarlo Don Alfonso in onore del nonno.
Una vera e propria sfida, divisi com’erano tra il tempo pieno in albergo e la ristorazione sorta nella dépendance.
Arriviamo così al 1982, con la decisione di puntare unicamente sulla ristorazione:
“Noi – racconta Livia nel dialogo con il padre – vogliamo fare ristorazione, noi vogliamo dare dignità ai prodotti del sud, noi vogliamo recuperare la nostra storia. Mio padre sconvolto: È molto bello quello che volete fare, ma… chi ve lo fa fare? Voi siete due pazzi, voi lasciate l’albergo, il certo per l’incerto. La ristorazione è un gioco d’azzardo, a Sant’Agata sui due Golfi poi…”.
Poco aiuto, poca disponibilità da parte della famiglia ad assecondare economicamente una pazzia, insomma tante difficoltà e lo scandalo di un albergo e di una villa venduti pur di assecondare un sogno.
Riscoprirsi contadini
L’idea è comprare un terreno abbandonato di fronte all’isola di Capri per ricavarci la materia prima per il ristorante. E così nel 1985 inizia la grande avventura: dedicarsi alla terra bandendo l’uso dei fitofarmaci.
Lavoro di riconversione del terreno rivelatosi duro e lungo. Un terreno senza vita, senza humus, che ha richiesto più di 4 anni per rigenerarsi, e dove i pomodori crescevano neri internamente e le melanzane risultavano molle.
E così fu una festa quando arrivarono finalmente i pomodori “veri”, dei “pomodoro d’oro” per il lavoro profuso. Un lavoro di passione, senza orari, senza feste e anniversari da poter festeggiare.
Gli anni ’80
Un percorso con tanti momenti duri, come nel 1983, all’inizio della loro avventura. L’idea di valorizzare la semplicità della materia prima non fu compresa e persero tanta parte della clientela, in particolare napoletana.
La ristorazione nell’Italia degli anni ’80 era fatta – ricorda la Granello – “per stereotipi e mode abbastanza sciocche, ma che in qualche modo davano un’identità più chic, più sfiziosa, per cui la rucola, per cui i gamberetti, per cui la panna, la vodka. Era un tipo di approccio alla ristorazione fatto per stupire, per ostentare, ma senza dietro un ragionamento. Non c’era la cultura del cibo, c’era solo l’ostentazione del cibo. Qualsiasi tipo di infingimento, di trucco, era autorizzato”.
Il piatto semplice, la ricetta che lavora sulla materia prima era considerata assolutamente inutile e banale: “Ora che in tutto questo una giovane famiglia si ficchi in testa di recuperare il pomodoro San Marzano, di farsi l’orto presso Punta Campanella, è un lusso enorme e negli anni ’80 inconcepibile. Molto meglio le pennette con panna e vodka che sono un’aberrazione pazzesca, ma faceva figo”.
In questa situazione, loro fanno gli spaghetti al pomodoro, “piatto speciale”. “Quando abbiamo riaperto – ricorda Livia – la specialità era spaghetti alla Don Alfonso. Come sono fatti? Pomodoro fresco e basilico. I napoletani ci ridevano tutti in faccia…”.
Il risultato fu un ristorante vuoto. La rinascita? Grazie ai congressi, con persone che arrivavano da tutto il mondo, da lì è nata la rinascita. Perché quello che era considerato banale dai napoletani, era riconosciuto come straordinario dagli stranieri o da chi arrivava da altre parti d’Italia. Non avevano mai mangiato una cosa così buona. Lentamente Punta Campanella diventava sempre più trionfante, fino alla prima Stella Michelin nel 1985. Un momento inatteso, il riconoscimento da tutto il resto del mondo, nel momento in cui si verificava l’abbandono della clientela locale.
Le uova di Ernesto
Questa attenzione per la materia prima trae origine dalla cura della salute dei figli. E qui si incrociano la conoscenza di un medico e le uova della contadina Margherita.
Questo medico, contattato una prima volta per curare un’infezione contratta dalla sorella di Alfonso, diventa loro medico di fiducia e si prende cura di Ernesto, bambino fragile e afflitto da una brutta tosse. Da questo grande maestro, Livia e Alfonso apprendono l’importanza di fare attenzione alla giusta alimentazione. “Con questo regime con cui abbiamo cresciuto i figli abbiamo cresciuto il Don Alfonso”.
L’esigenza di dare ad Ernesto gli alimenti più sani e nutrienti possibili si scontra un giorno con lo scoprire che le uova della contadina Margherita, uova credute d’oro perché venivano dalla campagna, in realtà provenivano da galline cresciute con la chimica alimentare e metodi stressanti.
Da qui il comprendere l’origine di tante malattie in una alimentazione errata e colma di inquinanti.
Insomma, c’è contadino e contadino e non sempre l’immagine e la rappresentazione di salubrità e genuinità, di campagna sana, è confermata dalla realtà. Da allora, tutte le loro galline sono nate lì, a Punta Campanella, e sono curate ed accudite. “Abbiamo anche una Spa delle galline per una covata in piena serenità, l’asilo per i pulcini…”.
Dall’episodio delle uova per Ernesto nasce lo stimolo per ricominciare da zero per poi arrivare a Le Peracciole, sette ettari distribuiti nella zona più selvaggia della Penisola Sorrentina.
Il pomodoro San Marzano era pressoché estinto perché era considerato troppo poco produttivo. Si preferivano varietà più facili da coltivare, più semplicemente esenti da patologie, che non richiedevano particolari cure, ma con un gusto diverso.
Alfonso e Livia Iaccarino decidono che bisognava recuperare il San Marzano.
Vanno a San Marzano, si rivolgono al sindaco, e si sentono rispondere che il pomodoro San Marzano non esiste più, perché adesso ci sono i ciliegini, che sono molto più comodi. Alla fine, è solo tramite un amico che riescono ad ottenere i semi del pomodoro San Marzano.
“Godere – sostiene Livia – significa lasciarsi andare e il cibo come un pomodoro raccolto venti minuti prima e portato a tavola ti dà delle emozioni sconvolgenti”.
Tra sala e psicologia
Con Livia la sala riceve un garbo e un senso come difficilmente si vedeva. “Quello della sala – è Livia che parla – è un lavoro meraviglioso. Per me il ristorante è la casa, la vita. E io sono orgogliosa di accogliere gli ospiti nella mia casa, per cui sono lì al lavoro dal 1983 ogni giorno, senza mai mollare, non ho intenzione di mollare”.
Sala – Don Alfonso
La sala, nell’accezione di Lidia, ha anche l’aspetto di un delicato lavoro psicologico nei confronti del cliente.
“La cucina prepara il piatto, e manda il suo messaggio di amore, ma è in sala che si racconta il cibo all’ospite, e non bisogna aspettare che chieda. Bisogna essere psicologi, un lavoro molto difficile, impegnativo. Un lavoro di sensibilità.
Guardare negli occhi l’ospite e prima ancora che parla devi intuire se ha bisogno di qualcosa e lo devi avvolgere con la solarità, l’empatia. Non per forma, ma facendo sentire che tu stai facondo qualcosa per loro, per accoglierli”.
Un lavoro stupendo perché in sala la sera hai il mondo seduto alla tua tavola, ti interfacci con altre culture, ti arricchisci. “Ed è meraviglio quando escono dalla tua porta e ti dicono «quanto ho imparato stasera»”.
Quindi la sala come accoglienza calorosa, vera e dove tutti si muovono come in una danza. “Perché anche muoversi tra i tavoli è importante. Ad esempio, non bisogna correre, non bisogna essere troppo vicini al cliente. Anche la gestione, la regia della sala deve avere un senso, non deve disturbare. Ci devi essere, ma non ci devi essere. Devi essere molto leggero, molto pronto, ma non invadente, aggressivo”.
Il nutrimento dei ristoratori
Per Livia e Alfonso l’attaccamento alla propria terra è fortissimo ed è motivo di ricompensa per i tanti sacrifici e rinunce. “Noi siamo il sud e siamo orgogliosi di farne parte. Sant’Agata, Napoli sono la mia terra e la difendiamo in tutto il mondo. Del resto, chi viene da noi vuole vivere una storia vera, autentica, di un territorio. E noi abbiamo questa ricchezza che dobbiamo solo difendere e offrire con orgoglio”.
Orgoglio di appartenenza in grado di coniugare cibo e storia, perché il cibo è storia, è contaminazione, è cultura, è vita del mondo. Non si può prescindere un piatto dalla storia di un popolo.
“Chi viene da noi – racconta Livia – deve toccare un pezzo della storia della nostra Italia, altrimenti siamo senza anima, siamo niente. Noi difendiamo il pomodoro San Marzano, il nostro olio, la nostra pasta, i nostri carciofi, le melanzane, i nostri prodotti, che il mondo ci invidia”.
E ci invidia non perché siamo bravi, ma piuttosto fortunati, perché abbiamo il Vesuvio e quindi una terra incredibile, tra sottosuolo vulcanico e salsedine di mare. “È così che i nostri broccoli, i nostri finocchi, i nostri pomodori sono un’altra cosa (…). Le verdure vengono servite senza sale, sono già salate naturalmente. Lo stesso olio non ha bisogno di essere accompagnato dal sale, la salsedine è già sulle olive”.
Comunicando Don Alfonso
Se questo è il patrimonio da tutelare e valorizzare, la comunicazione vien da sé con l’amorevole cura del territorio e il cibo come messaggio d’amore in sala e in cucina
“Il Don Alfonso, afferma Livia, si comunica con l’amore, è quello che fai che comunica, occorre fare bene quel che si sta facendo. Non abbiamo mai pensato di andare nel mondo, è il mondo che è venuto da noi. Perché quando si lavora con passione si lascia un segno indelebile”.
Il gesto del cliente che, tornando a casa, sente la necessità di scrivere una mail, una lettera di ringraziamento è la più preziosa ricompensa per il lavoro svolto.
“È commuovente, meraviglioso, chi scrive “speriamo di tornare presto”, vuol dire che quello che hai fatto è fatto con passione, che ci hai dato un’anima. Il messaggio è passato. Il cliente arriva, per curiosità, ma è molto più bello quando ritorna, vuol dire che hai lasciato un segno. E questa è una delle più grandi soddisfazioni di questo lavoro”.
Il potere di veto
Se per Livia il cibo è uno spartito musicale che trova in sala la chiave di lettura, ciò significa che la sala ha anche un potere di veto. “Se il piatto non piace a me, non arriva in sala. I piatti li devo amare, li devo sentire miei, altrimenti non posso raccontarli. Quando Ernesto prepara un menù ascolta il parere di tutti, e il primo giudice sono io. È una ricerca continua per l’emozione che vuoi tirare fuori dal prodotto unico che ti arriva dall’azienda agricola”.
Da Alfonso ad Ernesto
Oggi, chi si esprime in cucina è il figlio Ernesto. A pensarci non deve essere stato facile prendere il testimone. Alfonso Iaccarino, 3 stelle Michelin, primo ristorante del sud, ha dato tanta dignità, forza e visibilità alla cucina del Sud. Ed effettivamente per Ernesto avere un padre così ingombrante è stato veramente complicato.
Una fatica enorme, ma con Ernesto capace di tenere botta, gestendo la successione in cucina e superando diversi momenti critici. Secondo la Granello ciò si spiega con la sua storia e il suo personale percorso. Dopo una laurea in Economia è sua la scelta di tornare a Sant’Agata, avvicendandosi con il fratello Mario, altro cuoco bravissimo.
Una famiglia, quindi con quattro forti e strutturate personalità. “Ognuno dice io sono e racconta il suo pezzo di storia, con un ruolo centrale ricoperto da Livia”.
Il palato del Don Alfonso
Si ritorna quindi a Livia, motore del ristorante ad impronta femminile fortissima. Si può dire che il ristorante non esiste senza Livia. E nessuno dei tre uomini della famiglia Iaccarino può prescindere da questo.
Vesuvio di rigatoni
“Il palato del Don Alfonso, con tre cuochi bravissimi, del cliente medio del Don Alfonso, è tarato sulla sua bocca. Questo significa che è passato un meta messaggio. Loro cucinano e offrono ed elaborano, ma alla fine il filtro è il suo. È ancora il suo ristorante, malgrado non abbia mai cotto un uovo per il ristorante”.
La figura di Livia sta lì a dimostrare come la cultura, il gusto, la sensibilità, l’attenzione, possa determinare la storia di un ristorante.
“Ci sono dei messaggi – conclude Licia Granello con un filo di commozione – che passano per delle vie che noi non riusciamo a vedere, che non sono quel piatto lì, perché non è il piatto per il piatto, ma il piatto per come è stato costruito, per la porcellana in cui viene servito, la scelta della posata, la scelta della tovaglia, tutto questo attiene a un ristorante. E nessuno in questo quartetto che è il Don Alfonso, lo racchiude così intimamente come fa questa donna”.
Pasqua è la festa della Pastiera. Il dolce tipico della pasticceria napoletana ha ormai raggiunto ogni latitudine del Bel Paese con tutti i pastry chef più famosi d’Italia che tirano fuori la propria ricetta dal cilindro.
Come ogni piatto della tradizione italiana, varia da chilometraggio a chilometraggio perché ogni nonna ha la propria formula segreta ma c’è una variante che non cambia mai: le strisce che compongono la griglia che copre la torta.
Innanzitutto la forma che devono andare a comporre. Le strisce, 4+3, saranno disposte in modo da creare dei rombi e questo è dovuto al tentativo di bloccaggio del processo che porta l’impasto a “lievitare”, e la forma romboidale delle strisce di pasta frolla frena l’amalgama.
Le strisce devono essere 4+3 abbiamo detto ed è qui la vera magia della tradizione napoletana, perché c’è un motivo.
La sirena Partenope, incantata dalla bellezza del mare di Napoli, si ferma a vivere nelle acque del golfo ed ogni primavera emerge per salutare il popolo. I napoletani si godono il canto della sirena e per dissobbligarsi le portano farina, ricotta, uova, grano, acqua di fiori d’arancio, spezie e zucchero. Gli ingredienti, mescolati insieme, formano la pastiera e sono 7, come le strisce che vanno a ricoprire il dolce partenopeo.
Dal tortellino crudo sotto il tavolo alla cacio e pepe al parmigiano. La tradizione culinaria italiana si apre al mondo. Lara Gilmore e Massimo Bottura un amore tra Modena – New York e ritorno
Cuoco e ambasciatore del made in Italy, 3 stelle Michelin, Bottura è capace di trasformare una cacio e pepe in un mondiale risotto solidale al parmigiano.
Arte, musica e Modena trovano sintesi nella memoria riproposta in chiave moderna. Chi lo apre al mondo è sua moglie, Lara. Decodifica le ricette, lo avvicina all’arte e lo sostiene nella sfida alle convenzioni.
Il personaggio della nostra storia negli anni ’80 è uno di quelli fighi, stilosi. O, almeno è così che lo vede Lara, quando le loro vite si incrociano per lavoro in un caffè di Soho, New York. Giubbotto in pelle, pizzetto, bandana e moto stile Harley, Massimo si presenta orgogliosamente come “chef italiano”. Lei ama l’arte, ma nel frattempo è attratta anche dal fare i cappuccini e da quell’italiano sicuro di sé in cucina.
Lui viene da Modena, provincia italiana, è cresciuto tra donne – sorelle, madre e zie – armate di mattarello. Il suo regno? La cucina, precisamente sotto al tavolo, al sicuro dai fratelli maggiori e difeso dalla nonna. Da lì sotto il mondo è diverso, in quel rifugio anche il tortellino crudo rubato alla nonna ha un sapore particolare.
A Lara quel ragazzo piace tanto, è vulcanico, creativo, ed è disposta a seguirlo a Modena, ma non può reggere la concorrenza di un francese. A Montecarlo, Ducasse vuole la pasta fresca e i tortellini di Massimo. Disperatamente innamorata, a Lara non resta che tornare a New York.
Massimo Bottura ed Alain Ducasse – Identità Golose 2019
Massimo, da parte sua, capisce che in quel momento doveva ripulirsi la mente oltre al pizzetto. Scendere verso l’essenza del cibo. Operazione che in seguito dovrà passare anche dalla Spagna di Adrià.
Le esperienze, la tecnica, però, non bastano. Manca Lara, la capacità di chiarire la prospettiva, allungando lo sguardo. “Mi arrendo. È finita”, si presenta così a New York. Il “costruiamo una vita insieme” ha ora la forma di un ristorante a Modena, di nuovo: l’Osteria Francescana.
È il 1995, Lara è a New York, Massimo prende il telefono e “oggi apriamo il ristorante… Ci sposiamo, vero?” “Fammi prendere il caffè prima – risponde assonnata Lara – poi ti richiamo…” Ploff.
Nasce un matrimonio a tre con l’Osteria Francescana. E nasce in salita perché si parla di Modena, terra dalle profonde radici culinarie, e i modenesi, palati esigenti tarati su quello della nonna, erano a dir poco infastiditi dalla proposta di Massimo.
Seguono anni duri, almeno fino a quando non compare L’Espresso, il suo critico migliore. È aprile del 2001, e questa è un’altra storia.
Cos’è la Cartoguida Michelin? Un libro che unisce cultura ed enogastronomia della Destinazione Turistica Emilia
Perché è nata? Per rispondere alla crescita del turismo enogastronomico dell’area emiliana
Che indotto ha il turismo enogastronomico? Alto, secondo uno studio della JFC. Circa 12 milioni l’anno solo con i grandi ristoranti
Arriva nelle librerie la nuova Cartoguida Michelin Destiazione Emilia, un prodotto editoriale che comprende le province di Parma, Piacenza e Reggio Emilia e che aggrega i prodotti tipici del territorio, i punti di interesse artistico-culturali e i ristoranti di qualità selezionati dalla Guida Rossa Michelin, una mappa che costruisce percorsi alternativi, non ancora evidenziati sui vari itinerari del turismo. Un’alleanza tra la Guida Verde Michelin (dedicata a cosa vedere e dove dormire) e la Guida Rossa Michelin (la classica, che assegna le Stelle), oltre che le tipiche cartine che hanno reso l’azienda di pneumatici nata a Clermont-Ferrand nel 1888 riconosciuta in tutto il mondo.
La presentazione al teatro Valli di Reggio Emilia ha visto la presenza di Philippe Orain, direttore editoriale e Capo Redattore delle Guide Verdi Michelin, spiegare i motivi della nascita di questo nuovo libro: “Una risposta alla crescita del turismo enogastronomico in questa area, coerente con l’obiettivo Michelin, ovvero promuovere la mobilità offrendo nel contempo la miglior esperienza di viaggio”. Gusto e cultura dunque, due elementi che si sposano spesso nel Bel Paese come conferma Pierangelo Romersi, direttore di Destinazione Turistica Emilia: “La nuova Food and Map Travel è uno strumento ricco di informazioni sull’epicentro della Food Valley italiana. Oltre 15 prodotti tipici riconosciuti con il marchio Dop e Igp, circa 500 produttori tra caseifici, prosciuttifici e cantine, il luogo ideale per vivere un’esperienza culturale e di scoperta”. Il direttore, durante la presentazione, ha anche dato indicazioni sui flussi turistici in Emilia: “L’incremento del food tourism è sotto gli occhi di tutti, con un +6% sui pernottamenti ed un +5,6% di presenze. Il nostro meraviglioso territorio piace molto ai visitatori”.
Le parole di Romersi trovano conferma anche in uno studio condotto dalla JFC, un’azienda di consulenza turistica e marketing territoriale. L’indotto generato da 8 ristoranti stellati e da 11 bib gourmand è di circa 12 milioni di euro l’anno, con una presenza di circa 200mila unità, rendendo i ristoranti di qualità dei veri e propri driver economici, oltre che delle agenzie turistiche per il territorio. “Promuovono i prodotti e i produttori locali” conclude Massimo Ferruzzi, amministratore unico della JFC “valorizzando il territorio e la cultura”.a cultura”.
Metti una fredda sera d’ inverno ed un amico con pene d’amore che ti chiama.
“Che facciamo stasera? non mi va di rimanere a casa” “Beh! Potremmo andare in enoteca…”
Non c’è niente di meglio che un buon calice di vino, o una bottiglia,quando stai un po’ giù.
Piccola enoteca ma con un buon assortimento di vini.
Ed è così che ti ritrovi davanti ad una difficile scelta da fare: Che beviamo?
“Bianco o Rosso? o forse è meglio un rosato?”
Poi tra le bottiglie fa capolino una bottiglia di rosso: L’Atto, Cantine del Notaio, Aglianico del Vulture.
Il nome è stuzzicante, perché non provarlo?
L’Aglianico del vulture è un vino rosso ottenuto da uve del vitigno Aglianico, coltivato nella zona del Vulture che si trova nel Nord-Ovest della Basilicata, in provincia di Potenza. È uno dei migliori vini italiani. Soprannominato il Barolo del Sud perché ha gusto e maniera di produzione simile al Barolo. Di colore rosso rubino trasparente, al naso ha sentore di ciliegie sotto spirito, di fragole e lampone. In bocca è ricco, pieno, con tannini molto fini che conferiscono lunghezza e persistenza. Ha una bella struttura. Ma è sul finale che dà il meglio di sé.
Questo mi ha fatto pensare ad uno dei miei film preferiti. La Bisbetica Domata di Franco Zeffirelli, film del 1967 tratto da una divertente commedia di William Shakespeare, con protagonista un’immensa Elizabeth Taylor.
Caterina, la protagonista di questa commedia, è conosciuta in tutta Padova come “Caterina la Bisbetica” a causa del suo caratteraccio. Scorbutica e ribelle, non riesce a trovare marito.
Ma ha un carattere molto più profondo di quanto mostri in apparenza.
La trasformazione che compie dopo il matrimonio con Petruchio è totale. Si trasforma da Bisbetica moglie in Obbediente e Felice Sposa. Il tempo e l’amore del marito la cambiano radicalmente.
Un po’ ciò che succede a questo vino. All’inizio sembra un vino astringente e corposo. Dopo un po’ lo si sente fresco e fragrante,con sapore di frutta fresca.
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