Quando si associa ad un alimento la denominazione Made in Italy, l’immagine percepita è di qualità. Le tipicità italiane attraverso nuovi canali si diffondono ed arrivano ad essere conosciute da palati di tutto il mondo. C’è curiosità e voglia di assaggiare: il nutrirsi “all’italiana” è qualcosa che vale la pena provare; basta pensare che a New York la terza attrazione più visitata è Eataly, la catena di distribuzione che esporta la gastronomia italiana all’estero.
Ma se un prodotto d’italiano ha solo il nome e si spaccia tale per piacere? È quello che sta succedendo in maniera sempre più frequente, il fenomeno ha un nome: italian sounding. Prodotti totalmente estranei a provenienza, manifattura o processo industriale, riprendono i nomi dei prodotti italiani più famosi, cambiandoli leggermente e mantenendo delle assonanze per suscitare in un consumatore distratto un senso di italianità e indurlo all’acquisto. Chi poi assaggia potrebbe farsi un’idea sbagliata di cos’è quel prodotto, abituarsi e credere il sapore finto quello vero oppure convincersi che i prodotti italiani in realtà non sono poi così buoni. Il pericolo per l’immagine è alto.
In America puoi trovare un ricordo di Parmigiano Reggiano nel Parmesan, in Brasile nel Parmesao, in Argentina nel Regianito. Mozzarella di bufala casertana o salernitana? Il dubbio può essere fugato acquistando il kit con cui farla in 30 minuti, senza bisogno di latte. La voglia di artigianalità può essere soddisfatta anche da un wine-kit, con cui si può fare un Barollo, un Cantia o un Vinoncella.
Un formaggio Pecorino prodotto in Cina con latte di mucca, una mortadella siciliana fatta in Brasile, un pesto ligure dalla Pennsylvania, un sugo alla bolognese dell’Estonia…
Francesca Naccarato