Esiste una genuina relazione tra gastronomia e musica in base alla quale è proprio quest’ultima a condizionare la nostra percezione dei sapori. L’arte arriva all’anima, la ascolta e con un incantesimo inganna i sensi tutti, magicamente, squisitamente. Questa forma d’arte si chiama Flamenco ma potrebbe chiamarsi anche storia di Persone, di Culture, di Sentimenti e affonda le sue radici nella Tradizione musicale ovvero gastronomica dei Mori e del popolo Ebraico proprio come le affonda nella Terra, quella di Siviglia e della sua Andalucia, calpestata da una Corrida, figlia di una tauromachia che viene da lontano, ventre passionale ed emozionale che riesce a toccare le note più profonde del nutrimento. Nell’Aria, quella accarezzata da un ventaglio e pizzicata dalle mani come corde di una chitarra; nell’Acqua, il cui canto vitale evoca quello spettacolo di piedi, gonne e mantòn che istintivamente colleghiamo alla folcloristica paella, cugina sorella o amante del nostro risotto, del Pilaf turco e del Biryani indo-pakistano. Nel Fuoco, la cui fiamma alta serviva ai gitani a cucinare prodotti a costo e chilometro zero per realizzare piatti solidi e forti destinati a combattere il grande nemico freddo ma, soprattutto bollenti perché quelle verdure, quei ceci, quel riso, quegli stufati dovevano evocare la potenza degli incendi, la stessa che ritroviamo nei loro vini, dominati da un demone-chef-coreografo che a volte si chiama Rabbino e consente loro di definirsi Kasher o Kosher, altre volte si chiama Duende e consente al Flamenco di non essere definito. Nella ricetta che sazia anche il cuore, il coreografo propone artisti al sentore, o meglio, al soprannome di cibo, sfumati in un menù completo che va dai pesci più ricchi “Camaron”, “El Cigala”, al gazpacho artistico di “Tomatito”, “Habichuela” e “Perejil”, passando per molluschi maestri come “Caracol” e terminando dolcemente con “Chocolate”: come una danza prescritta per l’anima, seminata con l’arte e condita a suon di nacchere.