Storia della ristorazione con Licia Granello

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Trattoria parigina
Trattoria al Palais-Royal

Il ristorante. Chi era costui? Così esordisce Licia Granello, storica firma de La Repubblica, nel tracciare una affascinante ricognizione sulla storia della ristorazione per noi corsisti del Master in Comunicazione Multimediale dell’Enogastronomia.

Ci troviamo presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli e quel che segue è un resoconto, con qualche approfondimento, della lezione della Granello.

La ristorazione: una storia vecchissima

Nel ricostruire le antiche origini di una delle istituzioni alimentari più diffuse al mondo va sottolineato che l’uomo ha l’esigenza di nutrirsi e va a mangiare fuori casa per motivi tendenzialmente legati al lavoro.

Il senso di un locale che non sia il focolare domestico e dove ci si può mettere a tavola per mangiare qualcosa a pagamento va riannodato a strutture come i mercati e le fiere.

“Quando l’uomo ha cominciato a mercanteggiare, – ci ricorda Licia Granello – quindi a portare le proprie merci da un luogo ad un altro, nel corso dei secoli ha avuto bisogno di mangiare provvedendo a se stesso lontano da casa. E quindi o portandosi il cibo da casa o comprandolo per strada”.

Questa storia millenaria si è evoluta nel tempo e ha preso la forma di locande e punti di ristoro per uomini e animali in viaggio. Le tracce di questo sistema costruito intorno al commercio sono tuttora rintracciabili: “Ancora oggi abbiamo ristoranti che si chiamano cosi: “al cambio”, “alla posta”. Si ispirano ai luoghi dove si faceva il cambio dei cavalli, oppure si dava l’opportunità agli animali di riposare e contemporaneamente riposavano anche gli uomini che mangiavano cose molto semplici in tavoli comuni”.

Oltre alle locande destinate ai viaggiatori vanno poi ricordate le cucine di strada, fenomeno collegato anche qui allo sviluppo dei commerci e cresciuto con l’urbanizzazione.

Un piatto unico, preparato al momento e per una modica cifra: la funzione sociale delle cucine da strada in paesi come la Cina o il Giappone è ancora oggi molto rilevante. Seduti su panche, gomito a gomito, impiegati, studenti, uomini d’affari possono condividere oltre al cibo una chiacchiera tra loro e con il cuoco.

Il XVIII secolo e il ristorante moderno

Tornando in Europa, troviamo che è possibile farsi servire un pasto fuori casa anche negli spacci di bevande alcoliche. In questi locali un cibo semplice ed economico poteva accompagnare l’offerta di vino, birra o acquavite.

Sono locali che in Inghilterra chiamano “pub” – abbreviazione di public house – case pubbliche, o “inn”, le taverne, quando è prevista anche l’offerta di camere per passare la notte. Posti strutturatisi come centro della vita di una comunità.

In questi spacci cambiano i cibi al cambiar dei paesi: i salumi, i crauti e i formaggi serviti nelle Brauerein tedesche e austriache, le tapas (che derivano da tapeare, ossia chiudere, sigillare i bicchieri di vino con una fetta di prosciutto) servite nelle bodegas spagnole, i piattini all’olio delle ouzeria, le pies dei pubs, come i piatti di lesso e frattaglie delle taverne francesi. Questi erano tutti luoghi di distribuzione, di offerta di cibo molto basico.

Ristorazione popolare
Interno di una taverna popolare

In questo scenario europeo del XVIII secolo fa eccezione Londra che conta un numero considerevole di taverns di livello decisamente superiore alle omologhe europee.

Si tratta di locali spesso lussuosi in cui si servono pietanze raffinate, accompagnate infine da un buon porto o sherry. La clientela va infatti individuata tra gli uomini dell’alta borghesia o dell’aristocrazia, in particolare i lord che siedono in Parlamento. Questi risiedono abitualmente nelle loro dimore di campagna e in occasione delle trasferte nella capitale si servono di modeste abitazioni. La taverna si struttura quindi come luogo per ricevere gli ospiti e godere di una cucina accurata.

A Parigi il panorama gastronomico è diverso: abbiamo una grande cucina retta su una schiera di cuochi e maggiordomi al servizio di una nobiltà desiderosa di imitare i fasti della corte. Poi tantissime rivendite di cibo e vino con piatti di fattura modesta, ed infine dei caffè di ambiente già più raffinato, ma dove il nutrimento dello stomaco non va oltre dolci e sorbetti. È in questo contesto che interviene il caso Boulanger.

1765 Boulanger

Nel 1765 la Francia rivendica la nascita del primo ristorante. Un certo Boulanger, detto “Champ d’Oiseaux” o “Chantoiseau” (canto di uccello) apre a Parigi, nei pressi del Louvre, una bottega e per attirare la clientela fa dipingere sulla facciata una scritta presa dal vangelo di San Matteo: Venite voi che vi siete affaticati e io vi ristorerò.

Dalla fine del Medioevo la parola “ristorante” sta a qualificare dei ricchi brodi a base di carne adatti appunto a ristorare le forze indebolite. “Questo signore – racconta la Granello – si mette a offrire, a vendere nella sua taverna, dei ristoranti, dei brodi che ristorano. La parola brodo cadrà e resterà ristorante”.

Non solo fa brodi, ma si ingegna a cucinare anche piedi di montone in salsa bianca e per questo viene denunciato dalla corporazione dei trattori. Perché allora erano le corporazioni che avevano l’esclusiva dei vari cibi (corporazione degli speziali, ecc.). “Questa corporazione porta in giudizio il nostro Chantoiseau dicendo che aveva fatto un atto illegale, perché offriva nella sua taverna della carne che non avrebbe potuto spacciare. Lui vince, la corporazione è costretta a ritirare le accuse, e immediatamente lui allarga l’offerta, forte della decisione del tribunale di Parigi”.

In altri termini, abbiamo un forte segnale di crisi per le corporazioni che da lì a qualche anno verranno travolte dal torrente rivoluzionario, ma anche un deciso gesto d’incoraggiamento ad intraprendere una nuova professione.

E così, alla notorietà condita da successo di Boulanger, farà seguito la diffusione di trattori che abbandonano il tavolo in comune per offrire piatti raffinati su piccoli tavoli ricoperti da tovaglie. Le pietanze vengono indicate su un foglio incorniciato e a fine pasto al cliente viene portata la carta di pagamento. Abbiamo il menù e il conto.

1782 Antoine Beauvillers

A distanza di una manciata di anni, siamo nel 1782, Antoine Beauvillers, già cuoco del conte di Provenza, futuro Luigi XVIII, apre a Parigi, in rue de Richelieu, un ristorante all’insegna della Grande Taverne de Londres: un modo per richiamare lo sguardo dell’élite colta rivolto abitualmente verso l’Inghilterra.

La sua era la cucina dell’aristocrazia parigina ed è così bravo che il grande intellettuale del gusto Brillat-Savarin scrive di lui: “Fu per quindici anni il più grande ristoratore di Parigi. […] Fu il primo ad avere una sala elegante, dei camerieri ben vestiti, una cantina curata e una cucina superiore […] e sembrava che dedicasse ai suoi ospiti un’attenzione del tutto speciale”. Li riconosceva e li chiamava per nome, si rivolgeva agli stranieri nella loro lingua e piroettava per la sala con una spada al fianco. I prezzi che praticava erano proporzionati ai suoi molti talenti.

“Un bel salto in avanti – sottolinea Licia Granello – se consideriamo che fino ad allora non esistevano i ristoranti, esistevano le taverne, il cibo veniva servito in tavoli comuni. Con Beauvilliers nasce la ristorazione come la concepiamo noi, la ristorazione moderna. I tavoli sono divisi, i tavoli sono apparecchiati. La forchetta, che ha fatto la sua comparsa nel ‘700 a Venezia, diventa di uso comune. E quindi abbiamo una modalità di offerta e di fruizione del cibo che non è più quella semplicemente della nutrizione, ma diventa occasione sociale: vado al ristorante”.

La Rivoluzione e la fortuna dei ristoratori

1789. Scoppia la Rivoluzione francese. Uno degli effetti obbligati nel momento in cui i nobili fuggono all’estero o sono ghigliottinati è che i loro cuochi si ritrovano sulla strada. Cosa possono fare? Non ci sono case nobili, ed i borghesi ben si guardano dall’assumerli.

I cuochi si ingegnano allora ad offrire la loro cucina in modo pubblico: si mettono in proprio dando da mangiare ai nuovi principi, i deputati di provincia presenti a Parigi durante la rivoluzione.

Così la rivoluzione, permettendo all’alta cucina di uscire dall’ambiente di corte, decreterà la fortuna dei ristoratori. I ristoranti nel giro di pochi decenni aumenteranno di numero in maniera vorticosa. Dal centinaio di locali prima della Rivoluzione, diventeranno circa 500 sotto l’Impero, per raggiungere la cifra di 3000 unità durante la Restaurazione.

Nel 1804 nel suo Almanach des gourmands, Grimod de la Reynière così descrive l’evoluzione: “Il cuore della maggior parte dei parigini ricchi si è tutt’a un tratto trasformato in ventriglio […] di conseguenza non c’è nessuna città al mondo in cui i commercianti di prodotti commestibili siano aumentati così vertiginosamente. A Parigi si contano cento ristoranti per un libraio”.

Cambia il concetto di cibo

Ci troviamo quindi davanti ad un mestiere, una moda, una realtà sociale che esplode letteralmente. Ora, spiega Licia Granello “si va al ristorante per assaggiare cose diverse, per mangiare quello che a casa non si mangia. Cambia il concetto di cibo”.

Non siamo più al piano della taverna, della locanda, dell’osteria, del cibo di strada che attengono tutti ad un’offerta che oggi definiremmo di “comfort food“, di cibo che conforta. Il cibo di casa, della memoria, che nutre senza pretendere altro.

Qui entriamo in campo diverso. Il cibo deve divertire, deve stupire, deve stimolare. L’onda lunga è ancora quella dell’illuminismo, quella del caffè.

“Bisogna stare svegli, bisogna ragionare, bisogna immaginare delle cose diverse, una realtà diversa. Non bisogna stare acquattati, cullarsi nello status quo. Caffè e non cioccolata, perché questa è molle, è calda, invita a rilassarsi. Il caffè è la bevanda moderna. E il ristorante è il modo di fruire il cibo moderno”.

La Rivoluzione francese tramite il ristorante, un’istituzione nata dalla decadenza delle corporazioni, traghetta così la creatività culinaria dell’Ancien Regime a favore sia della borghesia, nuova classe dominante, sia in parte anche delle classi popolari.

Ristorazione nel XIX secolo
Ristorante Maison dorée – Secondo Impero

Ristorazione e turismo

Fine XIX secolo. Il turismo di lusso, spinto dallo sviluppo dei trasporti rapidi, genera un’ulteriore rivoluzione nel mondo della ristorazione.

Spiega la Granello: “La gente comincia a spostarsi. E si sposta per svago, per vedere altri luoghi, non necessariamente per lavoro. La bellezza di andare in luoghi sconosciuti, ma dove tutto è all’altezza del loro lignaggio. Siamo sempre in Francia, e gli aristocratici inglesi viaggiano in Francia, vanno a passare le acque, vanno agli impianti termali, vanno sull’oceano a fare la talassoterapia. Non vanno certo in locande e taverne…”.

Ristorazione e turismo
Soggiorni marini

Fenomeno non nuovo, in verità, perché già dalla fine del XVIII secolo alcuni ricchi inglesi hanno cominciato a trascorrere l’inverno in Costa Azzurra per poi “allungarsi” nel XIX secolo in Italia e verso la Grecia. Ma a caratterizzare questo turismo – dall’inglese tourism – è l’abitudine di affittare una grande villa con assunzione di numerosa servitù. Insomma, non porta all’apertura di ristoranti.

Le condizioni per un cambio rivoluzionario, e siamo alla fine dell’800, si verificheranno quando a viaggiare, ora per tutta l’Europa, non sarà solo l’alta aristocrazia, ma la borghesia dei vari stati nazionali. È in questo nuovo contesto che si apre lo spazio per gli alberghi di lusso.

Ristorazione d’albergo

Uno dei primi ad avere questa intuizione è lo svizzero César Ritz che inaugura il Grand Hotel di Montecarlo. “Lui si inventa questo palaces, – è sempre la Granello a parlare – questo palazzo che deve essere all’altezza delle dimore dei regnanti inglesi. E naturalmente in questo palazzo ci vorrà un cuoco all’altezza. Lui si accorda con il francese Auguste Escoffier, uno dei migliori cuochi del momento, siamo a fine 800”.

Il successo è tale che Ritz e Escoffier vanno a Londra e aprono il Savoy, un posto ancora oggi considerato magico.

Da qui in poi l’accoppiata grande albergo grande ristorante diventerà ineludibile, perché è impensabile che i signori si spostino con le loro carrozze, i loro bauli, per poi andare in giro a cercarsi i ristoranti.

Allora bisognava che l’albergo fosse straordinario e soddisfacesse il signore che vi arrivava, da tutti i punti di vista. La tavola -cibo, stoviglie e servizio – doveva essere all’altezza dell’ambiente. E gli stessi menù dovevano essere vari e articolati per evitare che il cliente si stancasse dell’offerta nei suoi lunghi soggiorni.

La situazione in Italia

Se ci spostiamo brevemente dalla Francia all’Italia abbiamo modo di osservare che l’offerta gastronomica è totalmente confinata alla cucina popolare.

“Noi non abbiamo avuto una rivoluzione, e quindi non c’è stata questa liberazione di grandi talenti della cucina. In Francia la cucina è partita dall’alto, dalle grandi corti, come in Austria, in Inghilterra. Da noi la cucina è partita dal basso, è molto popolare. È la cucina popolare che si affina e cresce di livello”.

Da noi si sviluppa un rapporto opposto anche per quanto riguarda il binomio cucina – offerta alberghiera. La ristorazione d’albergo in Italia è stata per molti anni di basso livello e raramente ci si fermava a cena. Si dormiva in albergo per poi mangiare fuori. Mangiare in albergo era un ripiego perché nel desiderio di scoprire le città si preferiva scoprire la cucina locale.

Insomma, noi non abbiamo una cucina codificata, non abbiamo avuto nessun Escoffier a codificare le nostre ricette, per cui una stessa ricetta è replicabile da una parte all’altra del paese.

“Da noi – riassume la Granello – è tutto diverso, per cui andare a mangiare a Roma, non è come andare a mangiare a Napoli o a Firenze, o Palermo. Le differenze si avvertono anche su raggio di spazio molto breve. A Napoli si mangia diversamente rispetto alla Penisola e da qui rispetto a Capri o Ischia, per non parlare di Avellino, Benevento o Salerno. Quindi si dorme negli alberghi, non ci si mangia, si va fuori a fare esperienze”.

Dal punto di vista dell’offerta alberghiera le cose sono cambiate molto lentamente e solo negli ultimi 20-30 anni. Il primo investimento alto da questo punto di vista lo fa il Waldorf Astoria Resort “Cavalieri” di Roma, che, totalmente fuori dal centro della città, aveva il problema della scarsa visibilità e raggiungibilità da parte dei turisti.

Si decide così di puntare tutto sulla cucina. “Prendono un cuoco, tedesco, giovane, molto rigoroso, con esperienza in giro per il mondo – si chiama Heinz Beck – e investono qualsiasi cifra”. Oggi si va al Waldorf Astoria per poter mangiare da Beck, 3 stelle Michelin ormai da molti anni.

Una storia, questa, esemplare, perché ha insegnato a tutti gli albergatori italiani che un grande cuoco, un grande ristorante, una grande offerta di ristorazione, cambiano le sorti dell’albergo.

Dopo la laurea in Scienze Politiche presso L'Istituto Universitario Orientale di Napoli, ha conseguito il Dottorato di ricerca in Storia e Politica dell'Età Moderna e Contemporanea - Scuola Europea di Studi Avanzati (SESA) presso l'Istituto Universitario Suor Orsola Benincasa. Ha coniugato impegno sociale ed ambientale amministrando dal 1998 al 2003 la cooperativa sociale di tipo B "Città di Leonia". Dal 2009 al 2018 ha collaborato con la società di e-commerce Yes s.r.l. di Napoli. Appassionato di storia, politica e cucina, ama viaggiare a piedi per i cammini europei in compagnia della famiglia. Pratica da più di 10 anni competizioni di Vela Radiocomandata